di Carmelo Zaccaria

La forza creatrice della parola, il suo valore espressivo, puntualizza lo spirito umano di ogni epoca, mettendo in luce lo spessore, la tempra morale oppure la pochezza, la miseria della sua classe dirigente. Le parole usate in questo periodo risultano spesso smisurate, se non fuori luogo, evanescenti, come particelle di fumo sparse al vento. Ma se sono scollegate dalla realtà, se non irradiano il mondo, sono inservibili, restano saette scagliate a vanvera, impuntature folgoranti che possono al più servire a provocare, a suscitare clamore o ad arpionare il plauso estemporaneo di qualche soccorrevole elettore.

Ci si abitua ad ascoltare parole così terrificanti che in un attimo sono ritrattate, ammorbidite, rabberciate. La parola invece, quando è ragionata, quando è contenuta, rappresenta un bene essenziale, consistente, duraturo. Chi vuole farsi ascoltare, e soprattutto comprendere, non ha la necessità di parlare molto (poche e sentite parole). Per dire il tutto, si reputa sufficiente una significativa e silente occhiata.

Invece oggi si sproloquia “a vista” con un tono volutamente aggressivo, fulminante, con lo scopo di strabiliare l’interlocutore, annichilirlo, provocarlo, affinché lo stupore, la trasgressione, siano sempre rinnovati attraverso un incessante diluvio comunicativo, una iattanza verbale, che tuttavia, nella sua protuberante veemenza, è destinata a rimanere invariabilmente sterile, irrintracciabile, insussistente. In fondo questa nuova classe dirigente prova a misurarsi con se stessa dopo essere stata lasciata a lungo senza parole, senza fiato, ed ora si trova d’improvviso a dover gestire un consenso stratosferico ritenendo giusto dover improvvisare per ritagliarsi un ruolo, farsi riconoscere, anche se la vuotaggine di contenuti, il tono prosaico e sempre più spesso minaccioso di certe forzature verbali non recano alcun prestigio a chi le pronuncia, anzi ne mettono a repentaglio la stessa reputazione; sempre che gli importi qualcosa.

Questi energumeni della parola sono sempre pronti ad incedere in un continuo turlupinare, alla ricerca di dettagli indiscreti, battutacce salaci, degne di un osteria di provincia. E’ davvero difficile abituarsi all’euforico narcisismo del ministro Sangiuliano, che vanitosamente ha ritenuto di poter votare la cinquina del premio Strega senza averne letto nemmeno una riga, rifacendosi inconsapevolmente al famoso aforisma di Oscar Wilde: “Non leggo mai i libri che devo recensire; non vorrei rimanerne influenzato”.

Questa classe dirigente di destra, allo stremo nella rincorsa ad una collocazione, si rischiara la voce con un linguaggio plateale e roboante, anche se la funzione, l’incarico, che sia alto o modesto, si svuota, se non si trovano le parole adatte a legittimarlo, se non evocano nessuna tensione morale. Ed inoltre se la parola precede l’analisi, il ragionamento, allora la si butta via, screditandola, sprecandola.

Naturalmente tanta disinvoltura si amplifica attraverso le fauci tonanti di Internet dove, com’è risaputo, tutto ciò che transita viene sempre preso per buono, quasi impossibile da confutare, anche quando si tratta di pettegolezzi pruriginosi di nessuna importanza. Il politico che si affida alla punzecchiatura, alla caciara verbale, sa perfettamente che anche ciò che sembra inconsistente può diventare credibile se ripetuto con insistenza e con una dose di protervia, tanta ormai è l’abitudine a dare per scontato tutto ciò che proviene dal web, non potendo ogni volta accertare i fatti tramite l’osservazione e l’esperienza diretta o mettendo a confronto una miriade di informazioni.

In fondo siamo diventati un uditorio morbido, assuefatto, continuamente maltrattato, anche perché non abbiamo più voglia di stare lì a preoccuparci, non abbiamo più il tempo di verificare ogni panzana. Abbiamo gettato la spugna: siamo affascinati dalla spocchia più che dal contenuto. Le parole non hanno più peso, ci danzano sopra la testa, nebulose e impalpabili, insignificanti.

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