Trampantojo è una parola spagnola che traduce, alla grossa, illusione ottica: il pericolo dell’avanzata di Vox, l’attesa per lo spettro postfranchista, è rimasto nell’allarme degli avversari politici, negli scongiuri di qualche cancelleria europea, nei titoli dei giornali conquistati dalle sparate del leader del partito dipinto di verde, Santiago Abascal. L’estrema destra – col suo bagaglio di xenofobia, antifemminismo, crociate anti-Lgbt, negazionismo dei cambiamenti climatici, nostalgia del Caudillo – non conquisterà il governo nazionale in Spagna. Se davvero la marcia delle forze sovraniste doveva trovare una conferma nel Paese iberico, come crocevia e laboratorio in vista delle elezioni europee del prossimo anno, alla prova del voto la scalata si è trasformata in una fermata all’autogrill. Vox arretra e di parecchio perfino rispetto al 2019, perde una ventina di seggi e la Moncloa – la sede del governo di Madrid – al momento la vede col binocolo. “Grazie a tutta la Spagna perché abbiamo dimostrato di essere una democrazia forte e pulita” può rivendicare il premier uscente Pedro Sànchez.

In realtà era noto da prima della giornata elettorale che Vox avrebbe potuto raggiungere il potere solo (ed eventualmente) grazie al Partito popolare, annunciato vincitore delle Politiche. Tuttavia il successo del leader del Pp Alberto Núñez Feijóo, che finora ha governato (a lungo) la Galizia, è indiscutibile come lo è la matematica ma nel Congresso spagnolo diventa piccolo piccolo. Il fatto che abbia portato il partito della destra moderata al sorpasso sui socialisti di Sànchez fa bene solo al suo orgoglio. Non c’è stata nessuna ola azùl, nessuna onda azzurra, come era successo solo due mesi fa, alle elezioni amministrative di fine maggio che portarono Sànchez alla decisione di dimettersi e convocare questo voto anticipato. Quella mossa che poteva sembrare avventata – o come minimo inutile a fronte di un disastro elettorale in apparenza inevitabile – col senno di oggi sembra aver centrato il bersaglio cercato dal leader socialista: fermare la destra. E, anzi, il Psoe ha addirittura migliorato il suo risultato rispetto a 4 anni fa, in termini di voti e di seggi. Le percentuali – per leggerla all’italiana – dicono che il Pp e il Psoe sono entrambi poco sopra il 32, divisi da pochi decimali. Sànchez ha trasformato una possibile catastrofe in un pareggio, cosa inedita per un leader di sinistra (di solito si è abituati all’ordine inverso).

La campagna elettorale ha fatto male a Feijòo più di quanto si pensasse e come invece forse aveva intravisto Sànchez. Il presidente dei popolari è stato spesso vittima di se stesso con effetti anche comici come quando a un comizio sosteneva una certa regola del due in economia e si è incartato dicendo che “vabbè, invece di due è 22, che alla fine è due per dieci” o ancora – all’ultimo giorno prima del silenzio elettorale – quando volle raccontare alla folla di simpatizzanti che era stato in visita sulla costa del Mediterraneo, a Huelva, che però è ben aldilà di Gibilterra. Ma, al netto di queste piccolezze, per il leader moderato galiziano stato complicato divincolarsi dalla storia dell’amicizia con Marcial Dorado, narcotrafficante galiziano condannato a 14 anni. Sono rimbalzate per giorni sui giornali le polemiche e soprattutto le foto – risalenti a una ventina d’anni fa – di loro due insieme in barca: alla fine il leader popolare non ha saputo difendersi meglio che con la tesi che all’epoca Dorado era “solo” un contrabbandiere. Ma soprattutto Feijòò ha dovuto spendere molte energie per scrollarsi di dosso il sospetto che davvero gli piacesse allearsi con Vox, tanto che a un certo punto ha detto chiaro e tondo che in caso di bisogno non avrebbe cercato i voti di Abascal ma “una ventina” di quelli socialisti.

Dall’altra parte Sànchez si è speso per una mobilitazione del popolo della sinistra dopo che la “lezione” delle amministrative era passata dall’astensione. Il fronte progressista ha posto l’accento per settimane sul fatto che con la destra il Paese sarebbe tornato indietro, invece di andare avanti. “Adelante” è stato lo slogan principale del Psoe. “España avanza” un altro claim: diritti civili, diritti sociali, questioni di genere, ambiente, dietro il sottinteso. Qualche esempio . Feijóo vorrebbe abrogare la legge sugli extraprofitti. E, quanto ai diritti delle donne, negli ultimi giorni di campagna è rimbalzato sui social il duello televisivo tra Abascal il machista e Yolanda Diaz, la leader di Sumar ex comunista, femminista, campionessa della riforma del lavoro che – tra luci e ombre – ha spinto l’occupazione. “La Spagna e tutti i suoi cittadini sono stati molto chiari – ha ripetuto di nuovo Sànchez nel cuore della notte – Il blocco politico dell’involuzione, del ritorno al passato e dell’abrogazione di tutti i nostri passi avanti negli ultimi quattro anni ha fallito. Il blocco di Partito Popolare e Vox è uscito sconfitto, siamo molti di più noi che vogliamo avanzare“. Ma il fronte progressista ha sofferto non poco negli ultimi mesi fino a spingere Pablo Iglesias, ex leader di Podemos che però aleggia sempre come commentatore politico, a farsi la domanda del diavolo: “Com’è possibile perdere le elezioni anche quando le cose vanno bene?”, riferendosi ai dati economici. Una risposta svolazza nell’inflazione che morde, nel rincaro dei prezzi, che non dipende dal governo ma che prende forma inevitabilmente nelle interviste nei mercati di strada che riempiono tv, radio e giornali. L’ultimo inciampo una decina di giorni fa quando è uscito un documento del Pnrr che prevede che dal 2024 le autostrade vengano messe a pagamento (attualmente in Spagna non lo sono): il direttore della società ha confermato, il governo ha smentito imbarazzato, ma il segno sul dibattito elettorale è rimasto.

Il risultato finale, insomma, è che – chiusi i seggi – la Spagna si ritrova negli abiti che di solito indossa l’Italia: al momento non c’è alcuna maggioranza capace di sostenere un governo con tutti e 176 i voti che servono. I deputati popolari sommati a quelli di Vox e a un partitino della Navarra arriverebbero a 171, i socialisti con tutti i suoi alleati grandi e piccoli con cui hanno governato in questi ultimi anni (a partire da Sumar, il nuovo soggetto unico della sinistra che comprende anche Podemos) non vanno oltre i 172. Lo stallo, l’equilibrio quasi perfetto tra due fronti che in questa campagna elettorale hanno fatto di tutto per farsi vedere come inconciliabili è fotografato ad altissima risoluzione poco prima della mezzanotte, quando in contemporanea a Madrid festeggiano sia sotto alla sede del Partito popolare in calle Genova sia fuori dal quartier generale del Partito socialista, in calle Ferraz.

Cosa succederà da lunedì è tutto da capire. Il popolare Feijòo si aspetta di ricevere l’incarico da presidente incaricato dal re Felipe VI perché è il suo partito ad essere arrivato primo. “Come candidato del partito più votato, credo che il mio dovere sia aprire il dialogo, guidare questo dialogo e cercare di governare il nostro Paese – dice – Il nostro dovere è evitare un periodo di incertezze. Chiedo formalmente che nessuno abbia di nuovo la tentazione di bloccare la Spagna”. Il governatore galiziano potrebbe andare a cercare voti in Parlamento, ma la strada è a dir poco impervia perché il Congresso spagnolo è costellato di partiti regionali, autonomisti e indipendentisti che soprattutto in alcune Regioni vedono con raccapriccio un governo con i popolari (che erano al governo ai tempi del referendum in Catalogna, per dire). Oppure dovrà affrontare una sfida questa volta sì impossibile, quasi una bestemmia: chiedere, come sta facendo, una astensione a Sànchez “in nome del bene della Spagna. Sànchez però è una figura che ha sostanzialmente costruito un’intera carriera politica sul rifiuto di accordi con la destra (si dimise da segretario del partito proprio per non essere costretto a farlo).

La seconda strada porta invece, di nuovo e per certi versi incredibilmente, proprio al leader socialista, che da questa elezione – nel campo progressista – ha ricevuto una riconferma che lo blinda, dentro al partito (a dispetto dell’ala centrista) e dentro la coalizione che fin qui ha governato la Spagna. I seggi del centrosinistra – chiamiamolo così – salirebbero a 179 (cioè 3 più del necessario) se della partita fosse anche Junts per Catalunya, la coalizione indipendentista catalana guidata da Carles Puigdemont, che come noto è stato a lungo “latitante” dopo le inchieste e i processi agli indipendentisti per il referendum del 2017. “Non lo renderemo premier in cambio di nulla” dicono da Barcellona. Il mandato di Sànchez è stato contraddistinto anche per le opere di riconciliazione e per le negoziazioni con le varie sensibilità indipendentiste, catalane e basche in particolare. In questo caso l’asticella si farebbe ancora un po’ più alta. Se nessuno di questi meccanismi dovesse funzionare, non rimarrebbe che l’uscita di sicurezza che la Spagna ha imboccato già un paio di volte: il ritorno alle urne.

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