Un’altra battaglia persa contro i colossi degli idrocarburi. Già lo scorso maggio l’Alta Corte di Londra aveva rifiutato di concedere all’Ong ambientalista ClientEarth il permesso di continuare nella sua richiesta di risarcimento; ora il giudice William Trower si è pronunciato contro l’organizzazione per la seconda volta. ClientEarth aveva citato in giudizio gli 11 direttori della Shell con l’accusa di cattiva gestione dei rischi ambientali: secondo l’Ong, il gigante degli idrocarburi non si è mosso abbastanza velocemente nella riduzione dell’impatto climatico delle sue attività, il che ha portato ad utilizzare i soldi dei suoi investitori in progetti di combustibili fossili non necessari. Investitori tra i quali rientra anche la stessa ClientEarth, la quale detiene una piccola quota della società.

“Il passaggio ad un’economia a basse emissioni di carbonio non è solo inevitabile, ma sta già accadendo. Eppure il consiglio persiste con una strategia di transizione che è fondamentalmente viziata” – aveva dichiarato l’avvocato di ClientEarth Paul Benson nell’esporre i motivi dell’azione legale – “nonostante il dovere legale del consiglio di gestire tali rischi. A lungo termine è nell’interesse dell’azienda, dei suoi dipendenti e dei suoi azionisti, così come del pianeta, che Shell riduca le sue emissioni più duramente e più velocemente di quanto il consiglio di amministrazione stia attualmente pianificando”.

Nella sentenza, Trower ha ora dichiarato che le motivazioni di ClientEarth non sono mosse dalla considerazione di “ciò che è nel migliore interesse di Shell”. “A mio avviso – si legge nella sentenza – il fatto che ClientEarth sia il titolare di sole 27 azioni di Shell, ma proponga comunque di avere il diritto di chiedere un risarcimento per conto di Shell in una causa che, da qualsiasi punto di vista, è di dimensioni, complessità e importanza molto considerevoli, dà luogo a una deduzione molto chiara che il suo vero interesse non è quello di promuovere al meglio il successo di Shell a beneficio dei suoi membri nel loro insieme”. Il giudice ha inoltre ritenuto insufficienti le prove fornite dall’Ong, alla quale nella decisione dello scorso maggio aveva detto che avrebbe dovuto poter dimostrare l’esistenza di “un’azione o un’omissione effettiva o proposta che comportava negligenza, inadempienza, violazione del dovere o violazione della fiducia” da parte di uno o più direttori.

Nel maggio del 2021 un tribunale olandese aveva ordinato all’azienda di combustibili fossili di ridurre le proprie emissioni del 45% entro il 2030. La sentenza è stata di portata storica perché per la prima volta una multinazionale è stata ritenuta responsabile di contribuire alla crisi climatica a livello legale, e, inoltre, ciò che il tribunale aveva richiesto consisteva in un reale cambiamento nella politica aziendale piuttosto che in un risarcimento economico. Poi, nel giugno 2022, l’azienda aveva rivisto la sua strategia produttiva frenando sugli impegni ambientali. Di lì le proteste di numerosi attivisti per il clima e della stessa azione di ClientEarth, destinata a scontrarsi con una base giurisprudenziale debole e ancora lacunosa su ciò che attiene alle responsabilità climatiche in capo alle società commerciali.

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