È la maternità surrogata, con i conflitti etici che comporta, il vero tema di questa storia d’amore “sbagliata”, di Tu dentro di me di Emilia Costantini. Spiega l’autrice che questo libro “trae ispirazione da un fatto di cronaca di molti anni fa quando, per la prima volta, una donna concesse il proprio utero “in affitto” alla figlia che non poteva avere bambini”. Un tema di scottante attualità, che la Costantini ha voluto affrontare dal lato squisitamente umano, ponendolo sotto la lente narrativa di una storia d’amore drammatica e lacerante.
Siamo di fronte a tre tre destini che si incontrano. Quello di Livia, un’affascinante quarantenne, affermata giornalista televisiva con una vita ricca di certezze professionali e affettive. Quello di Luisa, cinquantenne producer tv, proprietaria del network dove Livia lavora come responsabile del servizio cultura-spettacolo. E quello del giovane Edoardo, musicista e figlio di Luisa, che vive sin da bambino in America.
Una tournée musicale in Italia di Edoardo fa scattare la girandola di eventi. Il ragazzo incontra casualmente Livia: tra i due nasce un’irresistibile quanto inspiegabile attrazione. Tra i due nasce un amore tanto violento quanto misteriosamente necessario, malgrado la differenza d’età. Ma quando finalmente decideranno di andare a vivere insieme, superando i conflitti interiori e la condanna di chi considera “insana” la loro relazione, il destino – quasi come la tuke della tragedia antica – riserverà per loro una sconvolgente sorpresa.
L’ESTRATTO IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA
Aveva scelto: voleva tentare.
Avrebbe potuto ricoverarsi in una clinica di New York, ma il ginecologo italoamericano con cui aveva preso contatto, che l’aveva più volte visitata e aveva diagnosticato in maniera inequivocabile l’impossibilità di Luisa a portare in grembo un feto, operava una volta al mese anche in Italia, a Bologna. Le sembrò un segno ancor più significativo della sorte.
Era difficile metabolizzare il principio, in base al quale si stabiliva un patto: non avrebbe potuto conoscere la “donatrice”, colei che metteva a disposizione il proprio corpo, una parte così intima e segreta della sua femminilità, per realizzare il desiderio di maternità di un’estranea. E non si trattava di semplice curiosità.
Le risultava difficile soprattutto immaginarne non tanto l’aspetto fisico, ma comprenderne il movente psicologico. Non ne faceva ovviamente una questione morale: “affittare l’utero per soldi…” un giudizio che non poteva permettersi di formulare, perché l’avrebbe chiamata in causa in prima persona, visto che era proprio lei a pagare quel servizio, dunque era complice al cinquanta per cento di un gesto che poteva essere giudicato immorale. Ma in quei lunghi, interminabili nove mesi, i più lunghi della sua vita fino a quel momento, non riusciva a capacitarsi del fatto che quella sconosciuta potesse coltivare una maternità non sua, prendendo necessariamente le distanze in primo luogo proprio dal frutto che ne sarebbe scaturito. “Ma come si fa a non sentirsi mamma, cullando in grembo una creatura?”, rifletteva fra sé Luisa, guardandosi bene dall’esternare le sue riflessioni a Giuseppe, che aveva manifestato il suo dissenso sin dall’inizio. “Ma come si fa a non affezionarsi a quella creatura e a cederla, subito dopo il parto, ai legittimi proprietari, come fosse un oggetto, un fagotto, un coso, un qualcosa di cui potersi liberare allegramente?”
Legittime perplessità, le sue, che si declinavano in tutte le manifestazioni che riguardavano la sfera psicologica ed emotiva della maternità stessa. Avrebbe voluto conoscere la madre uterina di suo figlio per toccarla, sentirla in qualche modo vicina e complice.
Non era possibile e questa amputazione spesso e volentieri non la faceva dormire la notte.
Sì, amputazione: questa era una parola su cui rimuginava di frequente.
Quando le capitava di vedere esposto, in qualche vetrina, un abito premaman, si sentiva “amputata” della pancia. Per non parlare poi di quando iniziò a comporre il corredino per il nascituro.
Incontrava altre mamme con il loro pancione bene in vista, orgogliosamente esposto, ostentato, quel pancione che lei non aveva: le invidiava. E l’imbarazzo dell’“amputazione” si faceva insostenibile alla fatidica, puntuale domanda della commessa: «Ma il suo bambino quando nascerà?» oppure «è già nato?» «è maschio o femmina?» Non sapeva rispondere, non poteva scendere in particolari che non conosceva e allora scivolava via, fingeva un’aria distratta, assente, si trasportava altrove.
Una volta le frullò per la testa un’idea bislacca: “E se mi mettessi una pancia finta?”
Finalmente Edoardo nacque e tutti quei giorni, quelle ore di attesa, di assillo mentale, di trepidazione si cancellarono in un battibaleno: per quel bambino sano e meraviglioso ne era sul serio valsa la pena. Si cancellò anche l’invidia nei confronti delle altre “donne-mamme-normali”: ora anche lei aveva un bimbo, al pari delle altre, da cullare tra le braccia. Un giocattolo? No di certo: semmai, era un miracolo e lo viveva come tale.
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C’era il modo per guadagnare tanto e subito. Francesco prestava servizio anche in un centro privato a Bologna, dove operava uno staff specializzato in inseminazioni artificiali, una pratica assolutamente illegale.
Bastava che acconsentisse ad affittare il suo utero a una coppia sterile. Una buona parte della somma le sarebbe stata corrisposta immediatamente, il resto… alla consegna del bambino che sarebbe nato.
La prima reazione a quella proposta, a dir poco inconsueta, fu di smarrimento. Certo, era allettata dall’assegno molto, ma molto generoso, che le veniva praticamente sventolato sotto il naso. Ma l’idea di vendere il proprio corpo, sia pure per una buona azione, le sembrava decisamente assurda. Le vennero in mente storie di persone che, per dura necessità, si erano vendute un rene, un occhio… ma, nel suo caso, la posta era ben diversa. Tenersi in pancia un essere umano per nove mesi e poi darlo via, non saperne più niente, dimenticarlo. E poi, in quei nove mesi, cosa avrebbe fatto?
Non aveva molto tempo per pensarci.
Incosciente? Una mercenaria senza scrupoli? Accettò.
L’intervento d’inseminazione riuscì alla perfezione. In quei primi giorni, l’umore di Oscillava tra l’esaltazione di sentirsi onnipotente e la depressione per essersi cacciata in una situazione quanto meno complicata. Lo staff medico era molto soddisfatto e fiducioso nel successo dell’operazione: era giovane, forte, di ottima costituzione, dunque poteva tornare tranquillamente alla sua vita. […]
[Ma] c’era anche un grosso dovere, che di tanto in tanto avvertiva pesante come un macigno, verso i genitori “genetici” che avevano affidato al suo grembo la formazione della loro creatura: quei due sconosciuti che non riusciva neppure a immaginare, che avevano deposto il loro seme nella sua pancia come in uno scrigno prezioso.
Nei primissimi mesi, insomma, complice soprattutto il suo fisico sano, snello e piuttosto allenato, non si accorse di essere una donna incinta. Ma alla fine del quarto mese, qualcosa cominciò a mutare: la lampo dei pantaloni non veniva più su facilmente, i bottoni della camicetta non volevano saperne di infilarsi nelle asole e, non ultimo, il fastidioso inconveniente di dover andare spesso al bagno. Cominciò ad accorgersi che era arrivato il momento di dover fare i conti con qualcosa che cresceva dentro di lei comportando inevitabili conseguenze. Ora, per una donna che avesse desiderato quel bambino, quelle trasformazioni avrebbero rappresentato una gioia, essendo il segno tangibile che il suo desiderio si era finalmente avverato. Avrebbe avvertito l’importanza del suo ruolo, si sarebbe sentita una potenza, capace di creare la vita. Ma per lei era tutto un altro paio di maniche: attraverso quelle trasformazioni, aveva la conferma tangibile, evidente, di stare covando un estraneo e di averlo fatto per denaro. E non era una bella sensazione. Non conoscendone i genitori genetici, non poteva neanche immaginarlo, ipotizzarne i lineamenti, fantasticare su quale aspetto avrebbe potuto avere, a chi avrebbe potuto somigliare.
Tutto il contrario di una madre attiva, cioè di una madre che avesse voluto quel figlio, proprio quello, perché frutto dell’amore per un uomo. Lei era una madre passiva, subiva il desiderio altrui, l’altrui concepimento. […]
E dentro di lei cominciava a muoversi pure il nascituro: quando la mattina si svegliava, alzandosi dal letto, sentiva che anche lui, o lei, si svegliava, rotolando nel liquido amniotico; quando aveva fame, sentiva il suo ospite scalciare per lo stesso motivo, avvertiva cioè il medesimo bisogno di nutrirsi che gli veniva trasmesso. Insomma, non era più sola, erano in due ed era come se quell’esserino le dicesse: “È inutile che fingi che io non ci sia, perché io ci sono, esisto e sto accucciato dentro di te”.