In un saggio edito da Tabedizioni, la docente di discipline dello spettacolo dell’università di Firenze, Teresa Megale, e la ricercatrice Elena Lenzi, analizzano il periodo partenopeo (1878-80) dell’ancora sconosciuta ventenne futura star del teatro mondiale, quando la sua appassionata storia d’amore con il giornalista Martino Cafiero divenne autofiction a puntate scritta da Cafiero stesso, dove lui si ritagliò forzatamente il ruolo di vittima nella loro relazione.
Sedotta, abbandonata, ma alla fine trionfante sul maschio infingardo e provocatore. C’è un episodio storico nascosto che riguarda uno stralcio biografico (1878-1880) di Eleonora Duse, la Divina, quando fama popolare e riconoscimento critico mondiale erano ancora per lei sottili trafiletti entusiasti di cronache locali. Un romanzo scritto nel 1880 dal giornalista napoletano Martino Cafiero intitolato Volere, Potere dove l’autore trasforma in letteratura, però con nomi propri e riferimenti alla propria realtà non proprio celati (c’è perfino il soprannome della vera Duse, Nennella), la storia passionale tra un ricco rampollo d’industria (lui) e un’attrice teatrale (lei) con tanto di creatura partorita come nella realtà tra Martino ed Eleonora.
Una sorta di vendetta letteraria dove l’autore frigna come una vittima, ma che infine si rivela mal calcolato boomerang, mettendo in luce la sterilità della moralizzazione borghese sulle donne e sulla professione d’attrice di teatro nella società umbertina di fine ottocento. Ne scrivono diffusamente, con appassionata attenzione per i dettagli biografici e la ricerca storica (leggasi: le fonti), la docente di discipline dello spettacolo dell’università di Firenze Teresa Megale e la ricercatrice Elena Lenzi nel volume intitolato Volere, potere – Contro Eleonora Duse (tabedizioni). Siamo dalle parti del “banco di prova”, scrivono le autrici, planando nel biennio ’78-’80 che vede la Duse ventenne nella “cruna dell’ago del teatro partenopeo”, il luogo in cui “la sua arte cominciò ad irradiarsi” frequentando l’intellighenzia napoletana che le sarà vicina e d’aiuto sia professionalmente che umanamente quando il romanzo vendetta uscirà in novantatre puntate, modello feuilleton, sul Corriere del Mattino a partire dal 19 agosto del 1880.
Ça va sans dire, Cafiero, viveur e donnaiolo, “snob eccentrico”, penna stimata e arguta, anche e spesso di spettacoli teatrali, vide la Duse recitare sul palcoscenico del Teatro dei Fiorentini. Nella fattispecie, spiegano Megale e Lenzi, fu seguendo la rappresentazione di una shakespeariana Desdemona, non proprio la prova migliore della Duse (scrissero i critici dell’epoca) tra tanti trionfi in quei mesi fittissimi di palchi con i classici volti e personaggi di Elettra, Ofelia, Mirandolina o l’acclamata Teresa Raquin di Zola. “Dalle pagine letterariamente stereotipate di Volere, Potere scaturisce un ritratto involontario, che trattiene un nucleo di verità, neppure tanto adeguatamente dissimulato, e volutamente impietoso scagliato contro l’interprete e contro il mondo della microsocietà degli attori di cui era diretta incarnazione”. È l’idea del teatro come professione, perlopiù femminile, come fosse una sorta di “dannazione esclusiva” e di “perdizione”. In Volere, Potere la protagonista, l’attrice povera Lidina (la Duse), “fa strage di Cafiero-Silvio Hall al pari della Pentisileadi Kleist che finisce per sbranare Achille per amore”. Ma è nella maternità non voluta e risolta da Cafiero nella realtà fuggendo e sparendo, che il romanziere giornalista trova la quadra per mettere in cattiva luce Lidina/Duse nell’(auto)finzione. È a causa di questo frutto del peccato fuori dal matrimonio che il protagonista del romanzo, afflitto dal giudizio borghese attorno a lui, morirà precocemente. Nella realtà, come ricorda il conte Primoli, vicino alla Duse, rifacendosi a carte ritrovate anni dopo e da lei firmate, l’attrice si fece fare un ritratto in fotografia con il piccolo morto tenuto sulle ginocchia e l’immagine di lei pallida e smunta dimagrita. Fotografia che inviò al “padre di Mario” (in Volere, potere il neonato si chiama Faust!) e che a sua volta la rimandò indietro all’attrice dopo averci scritto, riferito all’ex amante, “commediante”. Che di lì a quattro anni la Duse spiccherà il volo nel teatro mondiale (recitando sempre in italiano), tornando ancora ad essere doppio letterario (la Foscarina in Fuoco di D’Annunzio), e che Cafiero morirà improvvisamente di colera, sembra come un frammento impazzito e risarcitorio, verso la Divina, di quel feuilleton che i lettori napoletani divorarono a puntate pensando alla Duse non proprio come esempio di intonsa moralità. Attraverso lo scandaglio millimetrico dei quotidiani e delle riviste dell’epoca con programmazione e commenti palco su palco, Megale e Lenzi non solo ci riportano nel fermento di quella Napoli che brulicava di culturale vitalità e dove il “teatro incarnava un modello di vita collettiva e interclassista”, ma srotolano un lungo filo che collega l’ieri e all’oggi su cosa significasse e significhi il complesso legame maternità-lavoro, ovvero quell’impossibilità femminile di carriera di fronte alla gravidanza, soprattutto per un’attrice di fine ottocento precaria, nomade e priva di formali tutele come pochi. La Duse, peraltro, nel 1881 sposò l’attore Tebaldo Marchetti con cui ebbe una figlia, Enrichetta, anche se poi la loro relazione naufragò proprio in mezzo all’instabile andirivieni d’artista della Divina. Nel libro di Megale e Lenzi trovate da metà in avanti anche il testo originale, puntata dopo puntata, del romanzo di Cafiero datato 1880.