Da quando scrissi il mio primo libro divulgativo, trent’anni fa, osservo l’enorme difficoltà dei media a stare con i piedi per terra. Effetto serra: istruzioni per l’uso, questo il titolo, sembra scritto ieri, fatto salvo l’ultimo capitolo, intitolato Che fare? Perfettamente inutile: non si è fatto praticamente nulla, anzi le emissioni antropiche di gas clima alteranti sono nel frattempo raddoppiate. Ero considerato scettico sulle politiche di mitigazione, non mi pare avessi del tutto torto. E additato a paladino di quelle di adattamento che cercai di promuovere con grande insuccesso all’inizio degli anni 90 del secolo scorso, almeno in Europa e in Italia. Per esempio, l’urbanistica e l’agricoltura degli ultimi trent’anni hanno messo l’adattamento in fondo alla lista della spesa, proponendo spesso soluzioni dis-adattative.
Sbagliava chi, come me, pensava che fosse tutto semplice: osservare e capire, valutare e decidere, attrezzarsi e agire. Non lo è stato, né lo è tuttora. Si continua fare confusione tra meteo e clima, incuranti del mitico aforisma attribuito a Mark Twain: il clima è ciò che ti aspetti, il meteo ciò che ti becchi. E il modo migliore per uscire sconfitti dalla sfida climatica è invocarla ogni volta che assistiamo a un evento meteo anomalo. Passata la festa, gabbato lo santo, non è solo un proverbio italico: once on the shore we pray no more. Passata la tempesta, ci si leccano le ferite e, soprattutto, si dimentica in fretta. In fondo, leccandosi le ferite si aiuta la crescita del Pil.
Qualunque evento estremo mette in moto la ricerca della responsabilità climatica, un giro di briscola dove si spendono a volontà i carichi maggiori, spesso incartandosi. L’interazione del cambiamento climatico con altri fattori di rischio crea circoli viziosi. La nostra capacità di adattamento è limitata dalla incertezza. Sono incerti i rischi climatici, incerte le azioni future, governati dalla incertezza i complessi sistemi ambientali e sociali in cui viviamo. Ciò che è efficace oggi può perdere efficacia a causa di dinamiche difficilmente prevedibili.
Come testimoniano le vicende degli ultimi anni, far fronte alle anomalie del clima cozza contro altri fattori di rischio, come le pandemie e le guerre. Non solo, complica le sfide che già c’erano, come la scarsità di cibo e la fame, l’aumento della povertà e l’esplosione della disuguaglianza. A loro volta, questi fattori provocano profonde retroazioni, poiché danno luogo a nuovi limiti all’adattamento, creando un circolo vizioso di impatti complessi e sfaccettati. Ognuno di questi fattori può mettere in crisi gli ordini sociali e aumentare la pressione sui singoli individui e sulle comunità. Quasi sempre questi fattori favoriscono decisioni dis-adattative che rendono le comunità – e gli ecosistemi da cui dipendono – più rigidi e fragili. E, per via della natura complessa dei sistemi socio-ecologici, alcuni di questi esiti dis-adattativi emergono in modo imprevedibile.
Fin dall’inizio degli anni 90 del secolo scorso ho sostenuto la necessità di uno sforzo speciale per promuovere l’adattamento climatico. Lo ammetto. Non per sottovalutare il ruolo del controllo delle emissioni, ma perché la macchina del clima era stata messa in moto e la sua inerzia, legata al comportamento degli oceani, è enorme. E avevo anche percepito che l’umanità correva il rischio di comportarsi come la rana nella pentola che bolle.
L’adattamento si può fare a livello globale, nazionale, regionale, locale. La mitigazione, ossia la marcia indietro sulle emissioni di gas clima-alteranti, no. Con l’aria che tira, tra guerre a pandemie, la scala globale dell’adattamento è una pura utopia. Roba da raccontare sul Book of Imaginary Engineerings che sto scrivendo. Così come si sta rivelando la riduzione delle emissioni. Per contro, a piccola scala l’adattamento può garantire una mitigazione efficace, almeno in fase di transitorio climatico.
L’adattamento ha comunque limiti precisi. In diversi luoghi del mondo iniziamo a vedere come le politiche di adattamento abbiano limiti assai evidenti. E l’adattamento al clima diventerà sempre più difficile man mano che ci avvicineremo a una temperatura terrestre più calda di 2 gradi centigradi rispetto all’epoca preindustriale. Una previsione realistica che già indicavano i climatologi degli anni 60 e 70 del secolo scorso, da Moeller a Manabe.
Per quanto utili se non indispensabili, gli attuali sforzi di adattamento non riescono a ridurre adeguatamente i rischi derivanti dai cambiamenti climatici passati, attuali e futuri, lasciando esposte e inermi le aree e le popolazioni più vulnerabili. L’adattamento non può sostituire ambiziosi sforzi di mitigazione. Anche un adattamento efficace non eviterà tutte le perdite e i danni e nuovi limiti all’adattamento possono emergere sotto forma di conflitti, pandemie, crisi sociali ed economiche.
Gli esseri umani hanno una notevole capacità di adattamento. Mentre il pianeta continua a riscaldarsi, però, l’umanità dovrà sempre più confrontarsi con impatti intollerabili ai quali le persone e gli ecosistemi non sono in grado di adattarsi. In altre parole, l’adattamento ha dei limiti seri. I cosiddetti limiti “morbidi” all’adattamento caratterizzano contesti dove le opzioni di adattamento ci sarebbero, ma le strutture di governo sono deboli, latita la sensibilità pubblica e manca la volontà politica. Questi limiti possono essere superati attraverso innovazioni e trasformazioni sociali, istituzionali o tecnologiche. I limiti “duri” si riferiscono, invece, a situazioni in cui non sono più possibili azioni adattative per evitare i rischi davvero intollerabili, come le ondate di calore insopportabili per il corpo umano o l’innalzamento del livello marino che sommerge le comunità costiere.
Un articolo scientifico del 1979, molto equilibrato, sugli scenari climatici al tempo disponibili concludeva così: “Se lo scenario qui presentato risulta essere corretto, più o meno, e il cambiamento climatico diventa una realtà accettata, cosa decideremo di fare al riguardo? I paesi del mondo devono agire insieme, poiché l’effetto è di carattere globale e la causa, principalmente la combustione di combustibili fossili, è un’attività internazionale. La situazione non ha precedenti nella storia dell’umanità: abbiamo una forte premonizione di una grande alterazione dell’ambiente globale e potremmo, almeno in linea di principio, fare qualcosa per cambiare il corso degli eventi se lo decidessimo. Un possibile precedente è la storia biblica della profezia di Giuseppe su un ciclo di siccità di 14 anni in Egitto” (Kellogg, W.W., Influence of mankind on climate, Ann. Rev. Earth Planet. Sci., 7: 63-92, 1979).
Nella storia dell’umanità non ricordo profezie così precise e altrettanto negate o disattese. I lettori che vorranno rifrescarmi la memoria sono benvenuti.