Nel 2021 una 53enne dipendente di un’azienda dolciaria riminese viene licenziata in tronco dalla propria azienda perché scoperta a lavorare per un’altra società durante le sue ore di malattia. Per solidificare i sospetti e giungere al licenziamento, il titolare aveva ingaggiato un investigatore privato, incaricato di seguire la donna nelle sue ore di malattia e documentare, con video e foto, la sua “infedeltà” nei confronti dell’impresa per cui lavorava.

Una volta notificato il proprio licenziamento, la donna, assistita dalla sua legale Jessica Valentini, decide di impugnare la decisione. In tribunale però non riesce a far valere le proprie ragioni e perde il posto di lavoro. Come raccontato da Il Resto del Carlino, l’avvocata decide di chiedere all’azienda la facoltà di accedere a tutti i documenti che in sede legale inchiodano la dipendente, senza che però quest’ultima intenda fornirli. Di fronte a questo muro, la legale si rivolge al Garante della privacy per avere risposte nel merito. Alle richieste del Garante, l’azienda si giustifica dicendo che ai tempi non aveva trasmesso nessuna documentazione in virtù del fatto che vi fosse “un’indagine in corso” ma, sempre secondo il Garante della privacy, queste ragioni non sono state ritenute sufficientemente valide per omettere la visione dei documenti alla difesa.

Così il Garante, dopo aver visionato tutte le carte, si è espresso in maniera definitiva sulla vicenda: multa di 10mila euro all’azienda. I motivi di questa condanna? L’azienda era in primo luogo tenuta per legge a fornire tutto il materiale che incriminava la donna e, inoltre, è sì lecito ingaggiare degli investigatori privati per fatti del genere, ma quando si decide di farlo è necessario affidare l’incarico tramite un contratto scritto, cosa che l’azienda non ha fatto.

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