di Francesca Carone
Cari amati giovani meridionali, dedico a voi questo immaginario viaggio da Roma a Foggia. Un viaggio del cuore accompagnato da sentimenti semplici e profondi, profumati di albe e tramonti di un Sud magico che s’incastra tra i colori dell’anima…
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Viaggiavo sul Roma-Foggia, nello scompartimento c’erano alcuni ragazzi: m’incuriosivano le loro movenze, la loro loquacità e quella vitalità pura e ingenua che s’intravedeva negli sguardi semplici e gioviali. Avevo estratto dalla mia preziosa cartella di cuoio (che alcuni di quei ragazzi osservava con curiosità, quasi si trattasse di un cimelio o di un oggetto mai visto prima) i miei libri preferiti, la mia penna stilografica e il diario. Qualcuno mi guardava come un alieno venuto da chissà quale pianeta. Ma io ero del loro stesso pianeta e avevo dentro di me quel desiderio antico e sopito di sentirmi vero, puro, autentico come uno di quei tramonti rossi che accendono il mare del Sud. Riposi tutto sul piccolo e angusto tavolo che arredava la mia postazione. E così iniziai il mio viaggio dentro la bellezza delle vite del Sud.
Accanto a me c’era Vito, ingegnere informatico e meccanico, con diversi master in America e Singapore alle spalle. Professore presso l’Università di Torino e consulente presso altre Università. Era piccolo con una corporatura minuscola, il viso pulito e due importanti tatuaggi sulle braccia con alcune scritte e immagini che raccontavano cose importanti della sua esistenza. Indossava una t-shirt bianca con vivaci disegni che richiamavano la bellezza e i colori della sua Terra. Aveva bermuda verdi con rifiniture arancioni e sneakers consumate, ma pulite. Un anello e una collana piuttosto grandi e un cappello con la visiera completavano il suo outfit.
Vito mi raccontò dei suoi studi e della sua specializzazione all’estero. Lo fece con una semplicità disarmante come si trattasse della scuola media. Lo obbligai quasi a dirmi la valutazione della laurea (110 e lode con bacio accademico) e gli ottimi risultati delle sue specializzazioni. Ne parlava come di una cosa banale e alla portata di tutti. Ma la cosa che più mi creò imbarazzo, misto a sofferenza con evidenti sensi di colpa, fu quando mi disse che aveva rinunciato ad alcune proposte lavorative come ricercatore presso un’università americana e quella di Singapore. Perché l’Italia era la sua patria e la sua vita.
Lo ascoltavo mentre parlava: era sereno come un bimbo che ha appena finito la sua poppata; discorreva delle sue esperienze con disarmante semplicità e senza scompensi autoreferenziali. Come farebbe un meccanico o un carpentiere o un salumiere o un capostazione. Il suo status attuale non aveva per nulla intaccato la persona che lui era: semplice, ingenuo, trasparente. Ma soprattutto vero. Amava la sua t-shirt bianca, le sue bermuda colorate come i tramonti sul mare. Amava il profumo della sua terra e quei tatuaggi dedicati ai genitori che si erano sacrificati per i suoi studi.
Vito aveva lasciato a Torino la sua stilografica, la sua ventiquattrore di pelle, i suoi pantaloni e la giacca di lino, le sue scarpe importanti. Li aveva lasciati dove lui non aveva radici. Perché indossare cose importanti non rende un uomo importante. E soprattutto aveva lasciato nei cassetti i libri scritti in giapponese e americano e quelli di Flaubert, i suoi preferiti. Compreso il suo rolex, regalo di sua moglie – anche lei docente universitaria – che, mi confidò, aveva indossato una sola volta. Era in treno e portava solo se stesso, perché lui aveva bisogno solo di “lui”!
A Torino aveva lasciato tutto quello che avrebbe potuto separarlo, distaccarlo dai suoi amici e soprattutto dalla sua famiglia. Aveva perfino degli occhiali da sole che indossava solo quando scendeva giù. Vito mi aveva insegnato che bisogna essere se stessi, sempre. Che bisogna rimanere semplici, autentici, veri. Che una persona non è lo status raggiunto o la posizione economica o il rango sociale. Che si è grandi solo quando si ha il coraggio di rimanere ancorati ai valori veri e non intrappolati nella gabbia dei pregiudizi e dell’ostentazione.
Vito aveva una cosa che io non avevo ancora: l’umanità, l’assenza di pregiudizi, il legame indissolubile alle radici e a una comunità che aspettava ogni anno il suo Vito con la sua t-shirt bianca e le sue bermuda colorate come la sua anima.
Grazie Vito e grazie a tutti i giovani del Sud.