Mafie

La bionda che guidava l’autobomba, i dubbi sul commando e la paura del colpo di Stato: i misteri della strage di via Palestro trent’anni dopo

Alle 23 e 14 del 27 luglio '93 un’autobomba salta in aria davanti al Padiglione d'arte contemporanea e uccide 5 persone: è la più misteriosa delle "stragi continentali" di Cosa nostra. Trent’anni dopo non sappiamo chi ha imbottito quella macchina di esplosivo e neanche chi l'ha guidata fino al luogo della strage. Non sappiamo neanche chi decise di farla esplodere davanti al Pac e per quale motivo. Sappiamo solo che qualcuno ha visto una donna bionda allontanarsi dal veicolo poco prima dell'esplosione. E in tutta la sua storia Cosa nostra non ha mai utilizzato una donna per compiere omicidi o attentati. Anomalie, buchi neri, piste dimenticate e ipotesi sui mandanti a volto coperto: ecco tutte le domande ancora senza risposta sulla bomba di Milano

La macchina da rubare la trovarono in via Baldinucci, una strada che divide Dergano dalla Bovisa, due quartieri a nord di Milano. Ma c’era un problema: l’auto era nei pressi di una caserma dei Carabinieri. O forse era un commissariato di Polizia? Gaspare Spatuzza non se lo ricorda con esattezza, come non si ricorda con esattezza molte altre cose relative alla strage di via Palestro. Quello che Spatuzza rammenta bene è di aver rimproverato il suo accompagnatore: Marcello Tutino, un siciliano che abitava da anni a Milano e che quindi conosceva bene le strade della città. Non abbastanza, evidentemente. “Di tanti posti che ci sono mi porti a rubare la macchina vicino ad un commissariato, una caserma?”, sostiene di avergli urlato Spatuzza poco dopo aver forzato la portiera di quella Fiat Uno grigio scuro, targata MI7P2498.

Gaspare Spatuzza

Un’estate a Milano – È il tardo pomeriggio del 23 luglio 1993, a Milano fa caldo e il sole non è ancora tramontato. In città si sono appena celebrati i funerali di Gabriele Cagliari, il presidente dell’Eni coinvolto in Tangentopoli, che si è suicidato nel carcere di San Vittore. Sono state esequie ad alta tensione: mentre davanti alla basilica di San Babila venivano sistemate le corone di fiori, un colpo di pistola sveglia il settecentesco palazzo Belgioioso: a neanche cinquecento metri di distanza Raul Gardini, il rampante imprenditore noto in tutto il mondo per i successi del Moro di Venezia alla coppa America di vela, si è sparato in testa. La notizia arriva mentre i funerali sono in corso: dicono che Gardini fosse atteso quella stessa mattina al Palazzo di giustizia, per essere interrogato dal pm Antonio Di Pietro. La gente parla di questo quando il feretro di Cagliari viene portato fuori dalla chiesa: a salutarlo applausi misti ai fischi. “Ladri, ladri. Vergognatevi”, urla la gente ai politici presenti. Nessuno può ancora saperlo, ma in quel momento gli uomini di Cosa nostra sono già in azione. Non a Palermo e neanche in Sicilia, ma lì al Nord, nella città degli affari, della finanza e delle tangenti. Quella Fiat Uno rubata in via Baldinucci ricomparirà quattro giorni dopo in via Palestro, davanti al Padiglione d’arte contemporanea, con circa cento chili di esplosivo nel bagagliaio. Salterà in aria 14 minuti dopo le 23 e ucciderà cinque persone. Quello che è successo in quei quattro giorni a quella macchina è ancora oggi un mistero irrisolto della strage di via Palestro, la più misteriosa e indecifrabile tra le bombe che nel 1993 fanno tremare l’Italia. Trent’anni dopo non sappiamo chi ha imbottito quella Fiat Uno di esplosivo e neanche chi l’ha guidata fino al luogo della strage. Non sappiamo neanche chi decise di farla esplodere davanti al Padiglione d’arte contemporanea e per quale motivo. Sappiamo solo che qualcuno ha visto una donna bionda allontanarsi dal veicolo poco prima dell’esplosione. In tutta la sua storia Cosa nostra non ha mai utilizzato una donna per compiere omicidi o attentati.

Via Palestro dopo la strage

Ore 23 e 14, anatomia di una strage – Il 27 luglio del 1993 è un martedì. Sono da poco passate le 23 e in giro per Milano c’è ancora gente. Sono soprattutto nei posti noti per la movida notturna: sui Navigli, a Brera. Non c’è praticamente nessuno, invece, in via Palestro, di fronte ai giardini che oggi sono intitolati a Indro Montanelli, ma che all’epoca erano semplicemente i giardini di Porta Venezia. In quella strada non ci sono neanche tante macchine parcheggiate. Solo quella Fiat Uno grigia, all’altezza del civico 14: ha un finestrino mezzo aperto, dal quale esce un fumo biancastro. Che cos’è quel fumo? Qualcuno si preoccupa e chiama la polizia municipale: arriva una volante con a bordo gli agenti Catia Cucchi e Alessandro Ferrari. I due vedono il fumo e chiamano subiti i Vigili del Fuoco. Ne arrivano sette: il capo squadra Stefano Picerno. Carlo La Catena, Sergio Pasotto, Antonio Abbamonte, Paolo Mandelli, Antonio Maimone, Massimo Salsano. Picerno e Pasotto aprono le portiere dell’auto e il fumo si dirada immediatamente. Da dove viene? Dentro alla macchina non c’è nulla che sta andando a fuoco. I vigili aprono il cofano e quello che vedono li mette in allarme: c’è un involucro di grosse dimensioni che somiglia a una grossa forma di parmigiano, tutto nastrato con dello scotch da pacchi e con alcuni fili elettrici che si perdono all’interno dell’abitacolo. Quella lì è una bomba: bisogna immediatamente evacuare la zona. Gli agenti della Municipale, allora, si allontanano verso corso Venezia, all’incrocio tra via Palestro e via Marina, per bloccare l’accesso. I pompieri, invece, cominciano a mettere in sicurezza la strada attorno alla vettura. Dopo qualche minuto, però, Ferrari si avvicina di nuovo alla macchina: dalla centrale operativa, infatti, hanno chiesto di rilevare il numero di targa. Lo accompagnano alcuni vigili del fuoco: in quell’istante la Fiat Uno salta in aria.

Attentato al Laterano

Notte di bombe – Tutta Milano trema: il boato si sente fino in periferia. L’esplosione forma un cratere sull’asfalto, travolge gli alberi e la facciata del Padiglione d’arte contemporanea. Sottoterra viene danneggiata pure la tubatura del gas metano: le fiamme sono altissime. In pochi minuti via Palestro si riempie di ambulanze, di forze dell’ordine, di giornalisti, di curiosi che escono di casa. Si forma una folla, che applaude quando vede il procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli e il pm Gherardo Colombo, all’epoca impegnati a indagare su Mani pulite. Nel frattempo, sotto al Padiglione d’arte contemporanea, si è creata una sacca di gas, che esplode nella notte: il tetto si sgretola, le pareti si sbriciolano e ingoiano i quadri e le altre opere custodite al Pac. Per capire la potenza dell’esplosione, Ferruccio Pinotti ha raccontato nel suo libro Attacco allo Stato (Solferino) che le cinture di sicurezza della Fiat Uno saranno ritrovate il giorno dopo davanti a un ufficio di via Moscova 4: in pratica hanno sorvolato di cinquecento metri i giardini di porta Venezia. Quella di via Palestro è solo la prima bomba che esplode nella notte. Pochi minuti dopo la mezzanotte, infatti, altre due auto imbottite di esplosivo saltano in aria a Roma davanti alle basiliche di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro: feriscono 22 persone ma per fortuna non fanno vittime. In via Palestro, invece, i morti sono cinque: l’agente di Polizia municipale Ferrari, i vigili del fuoco La Catena, Pasotto e Picerno e Driss Moussafir, un marocchino che stava dormendo su una panchina di via Palestro.

Ciampi e Napolitano

La paura di Ciampi – Che è successo la notte tra il 27 e il 28 luglio del 1993? Il presidente del consiglio, Carlo Azeglio Ciampi, si trova fuori Roma. Decide subito di tornare nella capitale ma non riesce a mettersi in contatto con Palazzo Chigi: i centralini sono tutti irraggiungibili, anche il telefono del suo ufficio. Il black out dura tre ore: anni dopo Ciampi racconterà che “quella notte ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora e lo penso ancora oggi”. Perché il premier arrivò a temere addirittura un golpe? È per questo timore che, qualche giorno dopo, annunciò l’intenzione di voler riformare i servizi segreti? Il 2 agosto del ’93, poi, Ciampi salì sul palco della commemorazione della strage di Bologna per pronunciare queste parole: “È contro questa concreta prospettiva di uno Stato rinnovato che si è scatenata una torbida alleanza di forze che perseguono obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”. A cosa si riferisce il futuro capo dello Stato quando parla di “torbida alleanza di forze” che punta alla “destabilizzazione“? Intendeva dire che quelle bombe non erano solo opera dei mafiosi? Fino a oggi sappiamo solo che le stragi del ’93 vengono organizzate da Cosa nostra per colpire lo Stato e costringerlo ad ammorbidire le condizioni carcerarie dei boss. Tra il 20 e il 27 luglio del 1993, infatti, a 244 mafiosi detenuti vengono notificati i provvedimenti di proroga del regime 41 bis, il carcere duro entrato in vigore dopo le stragi di Capaci e di via d’Amelio dell’anno precedente. Le sentenze e i pentiti raccontano che, per migliorare le condizioni penitenziarie degli altri uomini d’onore, nel ’93 i mafiosi attraversano lo Stretto e esportano le stragi sul “Continente“. Dopo aver ucciso i suoi nemici più famosi – Giovanni Falcone e Paolo Borsellino – Cosa nostra passa a colpire il patrimonio artistico dello Stato, uccidendo civili inermi: tra Firenze, Roma e Milano muoiono dieci persone, più di cento rimangono ferite. Sono atti terroristici che secondo la storia ufficiale i mafiosi organizzarono per mettere pressione allo Stato: una strategia che non ha precedenti. Eppure, trent’anni dopo, possiamo dire che quelle bombe hanno animato pochissimo il dibattito pubblico. E questo nonostante processi e indagini, che vanno avanti ancora oggi. Molto difficilmente nei telegiornali si vedono le immagini del cratere di via dei Georgofili o dei danni provocati al Pac di Milano. Eppure le stragi del ’93 sono forse addirittura peggiori di quelle contro Falcone e Borsellino. Perché sono bombe che colpiscono persone “comuni” in luoghi pubblici, come recitava la profezia di Elio Ciolini, un uomo legato all’estrema destra, condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna. Detenuto nel carcere di Firenze, già nel marzo del 1992 Ciolini invia una lettera ai magistrati per raccontare l’esistenza di “nuova strategia della tensione in Italia”, che sarà attuata con una serie di “eventi intesi a destabilizzare l’ordine pubblico”. Un anno e mezzo prima di Ciampi, dunque, Ciolini parla già di stragi come mezzo di destabilizzazione. È solo una delle tante coincidenze di tutta questa storia.

I fratelli Graviano

Le indagini in corso – Per le bombe di via Palestro, di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro sono stati condannati come mandanti ed esecutori una ventina di mafiosi, a cominciare dal capo dei capi di Cosa nostra, Totò Riina, fino a tutta una serie di fiancheggiatori del gruppo di fuoco di Brancaccio, il quartiere dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, i boss “propulsori” della strategia stragista. Nonostante trent’anni d’indagini e processi, però, sono ancora numerosi i quesiti irrisolti delle bombe del ’93. Non solo dal punto di vista dei cosiddetti mandanti a volto coperto, cioè gli ispiratori della strategia di Cosa nostra: con quest’accusa è ancora indagato a Firenze Marcello Dell’Utri, storico braccio destro di Silvio Berlusconi, che era pure lui sotto inchiesta fino al giorno della sua morte, il 12 giugno scorso. Secondo i procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco Dell’Utri ha istigato i Graviano “a organizzare e attuare la campagna stragista e, comunque, a proseguirla, al fine di contribuire a creare le condizioni per l’affermazione di Forza Italia”. Nel decreto di perquisizione notificato all’ex senatore nelle scorse settimane i pm ipotizzano che stragi del ’93 servirono “per indebolire il governo Ciampi“. Accuse tutte da dimostrare e che fino a oggi sono state archiviate più volte. La procura toscana indaga anche Paolo Bellini, ex estremista nero considerato vicino a esponenti dei servizi, già condannato in primo grado per la bomba alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980: è accusato di essere il ‘suggeritore’ delle bombe del ’93 a Firenze, Roma e Milano.

Cosimo Lo Nigro

‘U tignusu, Olivetti e Bingo – L’indagine di Tescaroli e Turco sta cercando anche di fare luce sui buchi neri che ancora restano sulla fase esecutiva delle stragi. “Le indagini non individuarono i responsabili materiali dell’attentato terroristico milanese. Non fu accertata l’identità di chi materialmente aveva assemblato l’ordigno nel bagagliaio dell’autovettura esplosa nella via Palestro”, scrivevano i giudici della corte d’Assise d’Appello di Milano nel 2005. Quei buchi non sono stati colmati neanche dopo la collaborazione di Spatuzza, l’ex imbianchino diventato killer di fiducia dei Graviano. Detto ‘u tignuso, perché aveva cominciato a perdere i capelli quand’era ancora giovane, Spatuzza ha un ruolo operativo in tutte le stragi realizzate da Cosa nostra: ha svelato il depistaggio delle indagini su via d’Amelio e ha raccontato di aver partecipato al furto del Fiat Fiorino poi esploso in via dei Georgofili. Poi, per le bombe del luglio del 1993, spiega di aver fatto parte di un commando ristretto. Oltre a lui ne facevano parte altri due mafiosi di Brancaccio: Francesco Giuliano detto Olivetti, perché quando gli affidavano un compito era preciso come un computer, e Cosimo Lo Nigro, noto anche come Bingo perché era appassionato di scommesse all’ippodromo. Nella capitale il gruppo si appoggia ad Antonio Scarano, detto Saddam, un calabrese che era diventato uomo di Matteo Messina Denaro. A Milano, invece, ci sono due coppie di fratelli siciliani: Tommaso e Giovanni Formoso, Vittorio e Marcello Tutino. Spatuzza sa tutto delle bombe piazzate nella capitale, dei sopralluoghi compiuti, dell’esplosivo nascosto sin dalla primavera del ’93 in un magazzino di via Ostiense. Al contrario sa poco di quello che è avvenuto a Milano. Racconta di essere arrivato alla stazione Centrale in treno, da Roma, il 23 luglio. Come fosse un turista in vacanza si era dato appuntamento davanti al Duomo con Lo Nigro, che nel frattempo era arrivato dalla Sicilia a bordo del tir di Pietro Carra, uno che faceva il camionista ma ogni tanto si metteva a disposizione dei boss per trasportare tritolo da Palermo.

Commemorazione al Pac

Sigari e detonatori – Il copione era lo stesso della strage di Firenze: a Porticello, sulla costa di Bagheria, c’era un pescatore – Cosimo D’Amato si chiamava – che insieme alle triglie tirava su con le reti anche le bombe inesplose della seconda Guerra Mondiale. Dagli anni ’40 giacevano sul fondo del mare di Palermo. Poi, all’epoca delle stragi, D’Amato le aveva recuperate in modo da rifornire suo cugino, cioè Lo Nigro, che insieme agli altri mafiosi si metteva al lavoro: estraevano il tritolo dagli ordigni, lo trituravano e poi lo pressavano in involucri che alla fine somigliavano a forme di Parmigiano. Quel tritolo ricavato dalle bombe ripescate in mare è praticamente la firma mafiosa nelle stragi del ’92 e ’93. Carra era partito da Palermo il 21 luglio con due Parmigiani esplosivi. A bordo del suo tir c’era anche Lo Nigro, che si era portato dietro una borsa, con alcune pinze e un pezzo di miccia arrotolata. In quell’estate del 1993 Bingo era diventato l’artificiere di Cosa nostra, l’uomo che spiegava agli altri come dare fuoco alla miccia delle bombe: “Noi l’accendiamo con un sigaro“. Eppure non sarà lui ad attivare l’esplosivo di via Palestro. Da questo momento, infatti, finiscono i fatti verificati e cominciano le domande. Il tir con l’esplosivo arriva ad Arluno, un comune nella periferia nord ovest di Milano, si ferma in piazza e dopo alcune ore viene raggiunto da un’auto: scende un uomo che Carra non aveva mai visto prima. Lo Nigro gli ordina di seguirlo fino a una strada sterrata di campagna dove viene scaricato il contenuto del tir. A quel punto il mafioso scende dal camion e resta in Lombardia, mentre il camionista torna in Sicilia. Chi era quell’uomo che accoglie Carra e Lo Nigro? Tommaso Formoso, siciliano di Misilmeri che abita da anni ad Arluno? O suo fratello Giovanni, che ha una gioielleria a Palermo ed è affiliato a Cosa nostra? Sono stati entrambi condannati per la strage di via Palestro, ma Spatuzza ha fatto solo il nome di Giovanni Formoso, raccontando di non aver mai visto Tommaso durante la sua trasferta milanese. La villa di Tommaso è stata forse usata dal fratello Giovanni, senza che l’uomo sapesse nulla della strage? È un’ipotesi che la corte d’Appello di Brescia ha respinto, considerando insufficienti le parole di Spatuzza e rigettando l’istanza di revisione di Formoso.

Luca Tescaroli

Il pulciaio, le micce e la strage in anticipo: i buchi neri – Assolti in via definitiva, seppur in due momenti diversi, sono stati Marcello e Vittorio Tutino. Anche in questo caso ai giudici non sono bastate le dichiarazioni di Spatuzza: dopo l’incontro al Duomo con Lo Nigro il pentito ha raccontato di essere stato ad Arluno e poi di essere andato a rubare la Fiat Uno insieme a Marcello Tutino e a Giuliano. Che ne è stato poi di quella macchina? Dove è stata custodita dal 23 al 27 luglio? E dove è stata imbottita d’esplosivo? Spatuzza non lo sa, perché dopo il furto di via Baldinucci è tornato a Roma per seguire l’organizzazione delle altre stragi. E la stessa cosa hanno fatto Lo Nigro e Giuliano, che però sono rimasti a Milano fino al 26 e al 27 luglio. Che hanno fatto nel frattempo? Scarano, l’uomo soprannominato Saddam che si occupava della logistica dei mafiosi a Roma, racconta di aver sentito un dialogo tra Lo Nigro e Giuliano, appena rientrati nella capitale. Olivetti rassicurava Bingo: a Milano era tutto apposto, anche se lui aveva dovuto dormire in un “pulciaio“, dove gli avevano dato da mangiare solo “pane e salame”. Dov’era questo pulciaio? È forse in una cascina di Caronno Pertusella, in provincia di Varese, che era nelle disponibilità di un nipote di Formoso? O è proprio nella villa ad Arluno? Un passaggio fondamentale perché è in quel luogo che è stato probabilmente assemblato l’ordigno, collocato nel cofano della Fiat Uno. Un’operazione delicata, per la quale servivano almeno due persone, visto che l’auto fu imbottita con circa cento chili di esplosivo. “Indubbiamente queste persone per costruire e allestire l’autobomba dovevano avere avuto un punto di raccordo, nel senso di un’officina o un locale nella disponibilità, abbastanza isolata per poter costruire letteralmente l’ordigno nella macchina”, ha raccontato ai giudici Gianni Giulio Vadalà, uno dei massimi esperti di esplosivi che ha fatto da consulente degli investigatori. In via Palestro, ha spiegato Vadalà, sono esplosi pentrite e T4, due componenti che non si usano spesso in ambito civile, visto che hanno un costo elevato: “È una combinazione che io ho trovato solo nel Semtex-h“. Esplosivo ad alto potenziale di fabbricazione militare, il Semtex veniva prodotto nella vecchia Cecoslovacchia: è stato usato anche nella strage di via d’Amelio e pure in quella del Rapido 904, che il 23 dicembre del 1984 aveva fatto 16 morti. Problema: nessun collaboratore di giustizia ha raccontato di aver imbottito la Fiat Uno di via Palestro col Semtex. Un altro perito, Paolo Egidi, ha invece spiegato perché dal finestrino dell’auto c’era un fumo biancastro: “La fonte più probabile del fumo presente all’interno dell’abitacolo fu l’accensione di tre micce a lenta combustione, che dimostra competenza da parte degli esecutori”. Eppure Spatuzza parla di una sola miccia, quella portata a Milano da Lo Nigro: ad attivarla, con un sigaro, doveva essere Tutino, visto che Bingo era tornato a Roma. “Lo Nigro – racconta Spatuzza – ha regolato la miccia, ma siccome per Tutino era la prima volta che accendeva una miccia, per precauzione, perché lui aveva un po’ di paura, gli ha messo un po’ di miccia in più“. Ma se gli ha messo “un po’ di miccia in più”, allora come mai l’esplosione di Milano è in anticipo? A sostenerlo è sempre Lo Nigro, che ne parla con Giuliano mentre Scarano ascolta: “L’hanno fatta scoppiare un’ora prima, doveva scoppiare tutto a mezzanotte, sia a Roma che Milano”.

Marcello Dell’Utri

La mala a Milano nei luoghi della strage – Per questi fatti, come detto, i Tutino sono stati assolti in via definitiva e dunque non sono più processabili. Eppure secondo Spatuzza è Vittorio ad aver azionato la bomba davanti al Pac, mentre suo fratello Marcello faceva da autista. “La miccia la doveva accendere Vittorio Tutino, quindi siccome il Marcello Tutino era colui che conosceva benissimo le strade di Milano presumo che era lui alla guida…presumo. Però ho la certezza fondata che colui che ha acceso la miccia per l’attentato su Milano è Vittorio Tutino, anche perché gli abbiamo spiegato bene che operazione doveva fare”. Ma per una strage delicata come quella di via Palestro com’è possibile che la mafia abbia deciso di usare uno che non aveva alcuna esperienza nel campo delle detonazioni? E di quella strage non sapevano nulla gli uomini di Cosa nostra a Milano, guidati da Robertino Enea? Anni fa Gianni Barbacetto ha ricordato su questo giornale che uno dei covi dei mafiosi sotto la Madonnina era proprio in via Baldinucci, cioè la stessa strada dove Spatuzza ruba la Fiat Uno poi usata nella strage. Il centro degli affari di Enea e dei suoi uomini era in una sala biliardo in zona Porta Venezia, non distante dal Padiglione d’arte contemporanea. Stavano lì pure la sera della strage, ripresi da una telecamera piazzata dalla Dia che indagava su un traffico di droga: dopo l’esplosione si vedono i mafiosi uscire in fretta dalla sala. Compreso Enea, che non entrerà mai in alcun processo per la strage: possibile che non fosse stato informato in alcun modo del botto di via Palestro?

Via Palestro dopo la strage

“La macchina si è fermata 150 metri prima” – Gli interrogativi proseguono anche se si ragiona sul bersaglio colpito: perché Cosa nostra voleva far saltare in aria il Padiglione d’arte contemporanea? Si trattava sicuramente un importante pezzo del patrimonio artistico culturale italiano, che però era poco noto al grande pubblico: una cosa è il Duomo, un’altra il Pac. E infatti secondo Spatuzza il vero obiettivo era un altro: “La macchina si è fermata un 150 metri prima. Per certezza posso dire che non è stato centrato l’obiettivo”. Cos’era dunque che doveva saltare in aria? Spatuzza, stranamente, non lo lo sa: “Ora io non so dire se effettivamente l’obiettivo era questo dell’arte contemporanea… o se più avanti ci fosse un obiettivo sensibile”. Più avanti c’è il Palazzo dei giornali di piazza Cavour, dove hanno sede Il Giorno, La Stampa, l’Ansa. Cento metri prima del cratere, in via Palestro 6, c’è invece il Centro europeo di comunicazione di Giuliano Di Bernardo, Gran maestro della massoneria che nell’aprile di quello stesso anno aveva lasciato il Grande Oriente d’Italia: anni dopo denuncerà l’infiltrazione delle mafie nelle logge. La bomba di via Palestro, dunque, doveva essere un messaggio indirizzato a chi? Per rispondere a questa domanda in passato gli inquirenti hanno lavorato anche su altre tracce investigative relative al possibile “vero obiettivo” della strage: una sede dei servizi segreti, non distante da via Palestro. E poi gli uffici-biblioteca di Marcello Dell’Utri in via Senato 14, a 500 metri da dove venne parcheggiata la Fiat Uno. Nessuna di queste piste si è mai trasformata in una contestazione formale. È probabile che l’obiettivo dell’attentato potesse essere un altro pezzo di patrimonio culturale italiano: la Galleria di Arte Moderna di via Palestro 16.

Identikit della donna di via Palestro

La donna della strage – Dopo trent’anni d’inchieste, invece, i pm sono convinti di aver individuato la donna descritta da alcuni testimoni oculari già subito dopo la strage. Ci sono due giovani che percorrono via Palestro la sera del 27 luglio ’93, poco prima dell’esplosione. Uno si chiama Roberto, viene da Como e quella sera è venuto a trovare un amico, Luca, che abita nei pressi del Pac. Sono circa le 22 e 15 quando i due giovani decidono di fare un giro in macchina: imboccano via Palestro e notano una Fiat Uno grigio scura, parcheggiata per strada. Da quella macchina scendono in due: una ragazza bionda con i capelli lunghi alle spalle, vestita di nero, con una gonna alle ginocchia in compagnia di un giovane con i capelli mossi e scuri. Luca ha raccontato ai giudici che “la donna era alta 1 e 65-1.70 con viso ovale. Li vidi da vicino, perché la loro macchina era sulla mia destra”. Il giovane racconta di ricordarsi della bionda perché “era una bella ragazza, in piedi, con la portiera aperta. I due parlavano: la ragazza, soprattutto, gesticolava”. Circa un’ora dopo Luca e Roberto passano ancora da via Palestro e si accorgono che attorno a quell’auto ci sono alcune persone: sono i vigili del Fuoco. “La macchina – racconta ancora Luca – si trovava nella stessa posizione in cui la vidi all’andata e aveva lo stesso colore”. Pochi minuti dopo sarebbe saltata in aria.

Il photo-fit della donna di via de’ Bardi

Un rompicapo vecchio di 30 anni – Chi è quella bionda? Cosa c’entra con la strage di via Palestro? C’entra niente con “Cipollina“, cioè una giovane bruna che, secondo un’informativa del Sisde, faceva parte di una struttura terroristica, composta da ex appartenenti a Gladio, con un ruolo attivo nelle stragi attribuite a Cosa nostra? Di una donna si parla anche nella strage di via dei Georgofili: aveva i capelli a caschetto ed era stata avvistata dal portiere di una stabile in via de’ Bardi poco prima dell’esplosione. Per quasi trent’anni la presenza di persone di sesso femminile sul luogo delle stragi ha rappresentato un vero e rompicapo per gli investigatori. Cosa nostra, infatti, non ha mai usato donne per piazzare bombe o commettere omicidi. Se nell’attentato dei Georgofili e di via Palestro sono coinvolte persone di sesso femminile allora vuol dire che quelle non sono stragi commesse soltanto dai mafiosi. Ecco perché ha avuto parecchio risalto la notizia diffusa nel marzo del 2022, quando la procura di Firenze ha iscritto nel registro degli indagati Rosa Belotti, una 59enne di Bergamo: è accusata di aver guidato la Fiat Uno imbottita d’esplosivo fino in via Palestro. Gli inquirenti sono convinti che la bionda della strage sia la donna bergamasca. L’hanno individuata con un software, che ha incrociato l’identikit della donna, costruito sulla base dei racconti dei testimoni, con una vecchia foto che ritraeva una giovane: era stata ritrovata durante una perquisizione del settembre del 1993 in un villino di Alcamo, in provincia di Trapani. Quell’abitazione, gestita da due carabinieri, nascondeva un gigantesco deposito di armi clandestino: all’epoca si disse che quelle armi servivano alla struttura di Gladio nel Trapanese, ma poi le accuse caddero. La foto, invece, è rimasta agli atti e molti anni dopo ha messo nei guai Rosa Belotti. La donna ha respinto le accuse: lei in via Palestro non c’era. Ma davanti a quello scatto, recuperato ad Alcamo, ha dovuto ammettere: “Si, quella nella foto sono io”.

Vincenzo Milazzo

La provincia delle stragi – Che ci faceva l’istantanea di una ragazza della provincia di Bergamo in un villino siciliano, trasformato in un deposito d’armi segreto? Terra di mafia e di enigmi, la provincia di Trapani recita forse un ruolo cruciale nella storia delle stragi. Un ruolo che è stato a lungo sottovalutato. Fino al 1992 il boss di Alcamo si chiamava Vincenzo Milazzo, ucciso pochi giorni prima della strage di via d’Amelio. Per ammazzarlo si muove il gotha di Cosa nostra: Messina Denaro, Leoluca Bagarella, cioè il cognato di Totò Riina, Giovanni Brusca, il boia della strage di Capaci. C’è anche Antonino Gioè, un mafioso di Altofonte che ha partecipato pure lui all’attentato contro Falcone. Cugino di Franco Di Carlo, un boss che trafficava droga in Inghilterra e che è stato accusato di essere l’assassino di Roberto Calvi, per essere un mafioso Gioè è un tipo strano: quando risponde agli obblighi di leva, nel 1969, i carabinieri lo descrivono ome una “persona certamente idonea a essere adoperata per compiti di intelligence militare”. Viene addestrato nei reparti speciali dei paracadutisti, ambiente storicamente affine all’intelligence. A tradire Milazzo è proprio Gioè, che era stato un suo vecchio amico: gli spara in testa con la sua P38. Poco dopo, viene uccisa pure la sua compagna, Antonella Bonomo, che era incinta di tre mesi. Quel doppio omicidio rimane per molti anni avvolto dal mistero. Poi Armando Palmeri, ex autista di Milazzo, ha deciso di collaborare con la giustizia, raccontando che il suo capo era stato assassinato perché si era schierato contro il piano di destabilizzazione dello Stato a colpi di bombe e stragi. Un piano messo in pratica da Cosa nostra, ma ispirato da altri sistemi di potere. Quali? Palmeri parla di almeno tre riunioni alle quali partecipò Milazzo, organizzate nella primavera del 1992, poco prima della strage di Capaci. “Volevano mettere in atto una strategia di destabilizzazione dello Stato con bombe e attentati. Da quegli incontri Milazzo usciva molto turbato. Mi diceva: questi sono pazzi scatenati e che quello che volevano fare avrebbe portato alla fine di Cosa nostra e che non avrebbe portato beneficio a nessuno. Milazzo non era favorevole ma rispondeva con un ‘Ni’ a quel progetto. Se avesse detto no sarebbe stato un gran rifiuto e ci avrebbero ammazzato”, è il racconto del pentito, morto improvvisamente nel marzo scorso. Palmeri usa quasi le stesse parole parole di Ciolini, l’uomo che aveva predetto le stragi definendole come “eventi intesi a destabilizzare l’ordine pubblico”. Gli stessi concetti di Ciampi, che il 2 agosto del ’93 parla invece di “obiettivi congiunti di destabilizzazione politica e di criminalità comune”.

Paolo Bellini

La primula nera e la Torre di Pisa – Per destabilizzare lo Stato Cosa nostra decide di colpire lontano dalla Sicilia, attaccando il patrimonio culturale italiano e uccidendo civili inermi. Una strategia raffinata: è stata formulata solo dai mafiosi? Per la verità il primo a suggerire di colpire la Torre di Pisa era stato Paolo Bellini, l’ex estremista nero che recentemente è stato condannato all’ergastolo in primo grado per la strage alla stazione di Bologna. Trafficante di opere d’arte, pilota d’aerei col nome falso di Roberto Da Silva, criminale borderline con rapporti coi servizi segreti, l’ex primula nera si trovava in Sicilia tra la fine del 1991 e l’inizio del 1992. Sostiene di essere stato lì per recuperare alcuni crediti e per questo era passato anche da Enna, la città che ospitava le riunioni in cui Riina aveva esposto agli altri boss l’intenzione di dichiarare guerra allo Stato. È durante quelle riunioni che il capo dei capi ordina ai suoi di rivendicare stragi e omicidi utilizzando la firma della Falange Armata. È la sigla di una sedicente organizzazione terroristica che era comparsa a Milano già nel 1991, quando la ‘ndrangheta del clan Papalia uccide l’educatore carcerario Umberto Mormile. In seguito la Falange rivendicherà pure gli attentati compiuti dalla banda della Uno Bianca e poi sbarcherà in Sicilia, alle riunioni di Enna, in bocca a Riina. Chi c’è dietro la Falange Armata? E come mai proprio in quel periodo Bellini si trova a Enna? In quei giorni l’ex primula nera racconta anche di aver incontrato Gioè, il mafioso di Altofonte che aveva partecipato alla strage di Capaci ed era stato tra i killer di Milazzo. Lui e Bellini si erano conosciuti nel carcere di Sciacca, più di dieci anni prima. È durante un colloquio tra i due che viene fuori quella frase: “Cosa accadrebbe se sparisse la Torre di Pisa?”. Una domanda inquientante ascoltata da Brusca: il boia della strage di Capaci si era nascosto dietro a una porta per origliare il colloquio tra il mafioso e l’ex estremista nero. Bellini, però, nega: non fu lui a pronunciare quella frase sulla Torre di Pisa, ma Gioè. Il quale, però, non può più replicare: è morto impiccato nel carcere di Rebibbia.

Antonino Gioè

Il suicidio di Gioè – Quello di Gioè è un suicidio strano, anzi stranissimo, sul quale la procura di Roma ha riaperto le indagini: solo recentemente, infatti, si è scoperto che il boss aveva chiesto più volte colloqui coi magistrati. Gli agenti di Polizia penitenziaria sapevano di doverlo guardare a vista, in prospettiva di una sua “imminente collaborazione”. Non è chiaro se il boss amico di Bellini sia riuscito a parlare con qualcuno. E non si sa neanche perché avesse deciso di non uscire più dalla sua cella nei giorni precedenti alla morte. Lo trovano impiccato coi lacci delle scarpe, che in teoria in carcere non poteva avere: li allaccia al terzo anello della grata e si lascia cadere da un’altezza minima. Nei casi d’impiccagione il cappio lascia sul collo dei segni che vanno verso l’alto: sul collo di Gioè, invece, sono verso il basso come se l’uomo fosse stato strangolato alle spalle. Al mafioso vengono trovate due costole rotte: chi l’ha soccorso dice che è stato a causa del massaggio cardiaco. Quelle costole, però, sono troppo lontane dal cuore. Sul tavolo, poi, Gioè ha lasciato una lettera in cui, tra le altre cose, nomina Papalia, il boss dell’omicidio Mormile, quello che segna l’esordio della Falange Armata. Gioè parla pure di Bellini, che definisce “un infiltrato“. A se stesso, invece, il presunto suicida riserva l’appellativo di “mostro” che “ora sta ritrovando serenità”. Questa frase, però, sembra scritta da due grafie diverse. “Questa storia del suicidio di Gioè secondo me è un altro segreto che ci portiamo appresso”, diceva Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico di Giorgio Napolitano al Quirinale, intercettato mentre parlava al telefono con Nicola Mancino. Ai magistrati di Palermo spiegò il senso delle sue parole: “A me quel suicidio non mi è mai suonato… mi ha turbato, mi turbò nel ’93 e mi turba ancora”. Il corpo senza vita di Gioè lo trovano la notte tra il 28 e 29 luglio del ’93: esattamente 24 ore dopo la stragi di via Palestro, di San Giovanni in Laterano e di San Giorgio in Velabro.