Il crollo – Ponte Morandi, una strage italiana, l’inchiesta di Marco Grasso sul crollo del Ponte Morandi (Adriano Salani editore), è un pugno nello stomaco che suscita sentimenti oscillanti fra la tristezza e la rabbia.
Il primo testo a cui fa pensare il durissimo e bellissimo racconto di Grasso è La banalità del male. Come nelle vicende narrate dalla Arendt, la tragedia del ponte si consuma alla fine di un percorso fatto di comportamenti burocratici che andavano dall’indifferenza all’opportunismo aziendale al cinismo puro e semplice. Gabriele Camomilla, il responsabile della manutenzione di Aspi (che fu prepensionato dall’amministratore delegato di Aspi Giovanni Castellucci) racconta ai magistrati: “Ogni volta Castellucci mi chiedeva se si poteva spendere meno. Non sapeva niente di autostrade, guardava solo i bilanci. Quando la società era in mani pubbliche, problemi di costi non ce n’erano. Io sostenevo che la manutenzione dovesse essere un’attività continua per prevenire le criticità anche con molto anticipo. Per Castellucci, invece, se in un dato momento storico l’opera non presentava problemi, i costi di manutenzione erano da ridurre […] La sua politica, non solo nelle manutenzioni, era sempre orientata al massimo risparmio dei costi e al massimo degli incrementi utili. Non è che si preoccupasse se il viadotto Polcevera, venti anni dopo, sarebbe crollato oppure no”.
“Un anno prima della catastrofe il crollo era un’ipotesi tutt’altro che remota – racconta Grasso – se ne parlava apertamente e in modo schietto nelle riunioni interne fra i più alti vertici di Autostrade per l’Italia: “Qua se famo male, quello va de sotto”. A parlare è Michele Donferri Mitelli, capo delle manutenzioni di Aspi, un fedelissimo di Castellucci. Donferri definisce il ponte un “malato”, che sarebbe meno costoso “abbattere” piuttosto che curare. È il 26 settembre del 2017.
Michele Donferri Mitelli sembra un personaggio uscito dai “Mostri” di Dino Risi e forse solo Alberto Sordi avrebbe saputo interpretarlo in tutte le sue sfaccettature: dalla brutalità romanesca con i sottoposti al cinismo di certe battute “40 morti de là, 43 de qua, stamo tutti sulla stessa barca…” Battute che rivelano la dimensione nazionale delle responsabilità di Aspi.
“Il 28 luglio del 2013 – racconta Grasso – un pullman precipita dal viadotto Acqualonga, gestito da Aspi, provocando 40 morti. Circolava con freni difettosi, grazie a certificazioni false firmate dalla motorizzazione civile di Napoli… Fra le concause del disastro, secondo la corte, ci sono però anche la manutenzione autostradale e gli scarsi controlli: i guardrail hanno ceduto perché il ferro che sosteneva le armature dei tiranti era corroso… Impressionato da quanto accaduto, Castellucci commissiona un censimento dei ‘rischi catastrofali’. A proposito del Ponte Morandi i report diceva: ‘Relativamente agli stralli non ancora ripristinati (pile 9 e 10) e alle restanti pile sono previsti sia interventi conservativi, sia un intervento strutturale. A tale riguardo il completamento di tale intervento è previsto entro il 2018’. Sappiamo già come è andata a finire – scrive Grasso – non c’è stato alcun intervento eseguito entro il 2018, data identificata nel 2013 come il limite ultimo per evitare una catastrofe”.
L’altro libro che Il crollo evoca è Razza padrona di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani. La ricerca di Grasso è infatti anche una riflessione profondissima sul “Capitalismo dal volto umano” dei Benetton, la famiglia che attraverso Atlantia controllava Aspi e che aveva conquistato la sinistra (e i suoi giornali) con una serie pluriennale di campagne sui diritti umani, ambientali, civili, sessuali del pianeta. Un brand che mai avrebbero fatto immaginare il capitalismo “sudamericano” che Aspi applicava alla gestione della rete autostradale. La festa di famiglia che i Benetton celebrano mentre a Genova si scava tra le macerie a Cortina tra il 14 e il 15 agosto 2018 “a due passi dal Golf club – scrive Grasso – nel grande prato della villa di Giuliana Benetton”, è l’atto finale di una catastrofe che Aspi ha costruito nel corso di 20 anni, accumulando una serie infinita di mancati controlli e di tagli alla manutenzione che hanno regalato ai Benetton una fortuna miliardaria.
“Cosa sia accaduto dopo il processo di privatizzazione – scrive Grasso – è raccontato da un numero impietoso: il 98% delle spese di manutenzione straordinarie del Ponte Morandi è stato effettuato dallo Stato (24 milioni di euro), il 2% dai privati (440 mila euro)”.
Il terzo libro che andrebbe riletto insieme al Crollo è No logo, il testo di Naomi Klein che rivelò al mondo lo sfruttamento prodotto dalla delocalizzazione dei grandi marchi nelle periferie del pianeta. Nel caso in questione il cortocircuito fra il primo e il quarto mondo è forse un “incidente” che avvenne il 24 aprile del 2013 alla periferia di Dacca in Bangladesh, quando un palazzo crollò uccidendo 1.134 operai tessili. Solo dopo la strage emerse che “i quattro piani superiori erano stati costruiti senza permesso e l’edificio era stato progettato per ospitare solo negozi e uffici, ma non fabbriche… Gli ispettori avevano scoperto crepe nell’edificio il giorno prima del crollo e ne avevano chiesto l’evacuazione, ma i lavoratori tessili sono stati costretti a tornare il giorno seguente, dato che i loro supervisori avevano dichiarato l’edificio sicuro. I manager minacciarono addirittura di trattenere un mese di stipendio ai lavoratori che avessero rifiutato di tornare al lavoro.”
In rete è possibile trovare un comunicato in cui i Benetton si affrettano a precisare che l’outsource (la catena dei subappalti) è di fatto incontrollabile e che solo l’1,8% della produzione del Rana Plaza riguardava il marchio, ma ciò che resta e colpisce è la somiglianza nella meccanica dei due incidenti; quasi che il primo, il crollo di Dacca, anticipasse metaforicamente il crollo di Genova.