Giorgia Meloni a Pompei. Non sarà stata una visita memorabile come il live dei Pink Floyd nel 1971, ma i media si sono comunque sbizzarriti.

C’è chi ha celebrato il Frecciarossa 1000 che collegherà Roma a Pompei in 110 minuti, con vette liriche ineguagliabili, un po’ per il convoglio un po’ per il Presidente del Consiglio (Il Mattino del 17 luglio: “L’emozione dei visitatori: ‘che bello il treno diretto; ma davvero c’è Giorgia?’”). Qualcuno ha osato far notare che quel treno, in realtà, partirà solo una volta al mese, la terza domenica. Per la precisione, come avrebbe sottolineato Massimo Alfredo Giuseppe Maria.

E qualcuno, ancor più pignolo, fa notare che anche se funzionasse ogni giorno, sarebbe un collegamento utile solo ai turisti, mentre pendolari e cittadini “normali” vengono quotidianamente sacrificati sull’altare del “prima i turisti” (dal 3 luglio EAV, azienda della Regione Campania, per la tratta Napoli-Sorrento eliminerà tutte le fermate comprese tra Piazza Garibaldi e Torre Annunziata: San Giorgio a Cremano, Portici, Ercolano, Torre del Greco, tutte località a pochi km da Pompei).

C’è chi si è concentrato sull’aspetto più artistico, andando a fornire i dettagli dell’inaugurazione della Casa delle Nozze d’Argento.

Non sono mancate le note critiche, col Corriere della Sera e i giornali del gruppo GEDI di Elkann che hanno evidenziato la protesta dei giornalisti al seguito di Meloni: “confinati in un vagone” (Corsera), “bloccati e fotografie vietate. Treno per Pompei, gita da Istituto Luce” (La Stampa); “Parata di Governo” e, ancora, “Vagone blindato e scavi off limits. Cronisti confinati” (La Repubblica).

L’obiettivo del governo e in primis del ministro della Cultura Sangiuliano era chiaramente uno spot per il turismo, “nostra benzina più produttiva”, secondo le parole della stessa Meloni. Il Presidente del Consiglio ha aggiunto: “A Pompei dimostriamo che l’Italia si prende cura del suo patrimonio”.

In questo “patrimonio”, evidentemente, non rientrano lavoratori e lavoratrici. Altrimenti qualcuno li avrebbe quanto meno tenuti in considerazione. E il potere mediatico avrebbe chiesto a Meloni e ministri che significa che “l’Italia se ne prende cura”.

Oggi a Pompei non è nemmeno facile capire alle dipendenze di chi lavori il personale impiegato. Esistono infatti diverse società concessionarie che si occupano dei diversi servizi. Opera Laboratori Fiorentini SpA, che si occupa di biglietteria (a livello nazionale, nel 2019, su 197,8 milioni di euro di biglietti venduti dai musei statali, 26 sono finiti nelle casse dei concessionari); Società Cooperativa Culture (deposito bagagli); Artem srl (bookshop); D’Uva srl (audioguide); A.L.E.S. Arte Lavoro e Servizi SpA . Quest’ultima è una società in house del Ministero dei Beni Culturali e opera con addetti alla fruizione, manutenzione ordinaria e affiancamento tecnico a funzionari amministrativi, archeologi, architetti e restauratori.

Altre imprese private sono poi affidatarie dei servizi di pulizia, della gestione degli impianti elettrici, delle luci, della manutenzione dei giardini. Una babele di esternalizzazioni di servizi chiave su cui si regge il sito di Pompei. Messe insieme, tutte queste aziende raggruppano centinaia di lavoratori e lavoratrici sulle cui spalle, ogni giorno, si regge l’apertura e il funzionamento del sito di Pompei. Ovviamente accanto al personale in pianta organica presso il Ministero.

Nella maggior parte dei casi, per queste imprese il CCNL di riferimento non è quello Federculture, contratto nazionale di riferimento del settore, bensì quello Commercio, ormai scaduto nel 2019 e tra quelli “colpevoli” delle basse paghe nel nostro Paese. Per di più, per i dipendenti di A.L.E.S. S.p.A. vigono clausole contrattuali individuali peggiorative di quelle previste dal CCNL. Un esempio su tutti: il lavoro nei festivi, cui il CCNL Commercio non vincolerebbe, è obbligatorio (quello domenicale è, purtroppo, obbligatorio già secondo il CCNL Commercio).

Come mostrato da un’indagine svolta da “Mi Riconosci?” su oltre 2.500 lavoratori e lavoratrici del settore dei Beni Culturali, se turismo e cultura sono il “petrolio”/“benzina” d’Italia, i dipendenti assomigliano ai colleghi che lavorano nel Paese simbolo della rendita petrolifera, l’Arabia Saudita: poveri, precari, all’opera in condizioni estreme, dal freddo e la pioggia fino ai 40 gradi di questi giorni.

La maggioranza non è dipendente diretto dell’amministrazione pubblica, ma di società private, in moltissimi casi cooperative. Che applicano per lo più il CCNL Multiservizi, assai più favorevole all’imprenditore e sfavorevole al lavoratore rispetto al FederCulture. Inoltre, che si sia lavoratore dipendente o partita IVA (dietro cui spesso si mascherano forme di lavoro subordinato), le alte paghe per un mestiere che si basa sull’altra professionalità, sono miraggio nel deserto: quasi il 70% dei dipendenti e il 40% degli autonomi dichiara di percepire meno di 8€ netti l’ora. Uno dei motivi per cui il salario minimo di 10€ l’ora sarebbe utilissimo anche a queste lavoratori e lavoratrici.

E se vuoi protestare? Non hai vita facile. Perché sei strutturalmente isolato (lavoratore autonomo o diviso da chi lavora nel tuo stesso luogo ma con altra ditta e altro contratto). Ma anche per altro. Perché se i lavoratori e le lavoratrici di musei e monumenti nazionali sono costretti a seguire lunghe e farraginose procedure prima di poter entrare effettivamente in sciopero, lo si deve al decreto del 16 settembre 2015, voluto dal ministro Franceschini (Pd), che faceva rientrare il settore tra i servizi pubblici essenziali, cui dunque si applica la Legge 146/90 che limita la libertà di sciopero.

La fotografia dello stato dei lavoratori e delle lavoratrici degli scavi di Pompei è la dimostrazione plastica del fatto che i bassi salari e l’estrema precarietà non sono esclusivi di settori a basso tasso di scolarizzazione e specializzazione. Se anche nel settore della cultura, da più parti celebrato come il futuro del Paese, le condizioni sono queste, vuol dire che abbiamo un problema strutturale.

E che se vogliamo invertire la tendenza – anche dell’emigrazione dei nostri giovani – serve un cambio di sistema: a partire dal salario minimo di 10€, la re-internalizzazione dei servizi, la regola della stabilità che deve soppiantare quella della precarietà.

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