Perché la politica e i politici fanno schifo. Su questa terra e sotto questo cielo immenso la politica è dappertutto uguale, un interminabile inganno. Poiché il nostro cuore era puro, noi amavamo ciò che era netto, senza ipocrisia e artifici. Ma un regime politico che non sapeva comportarsi da brigante e mentire non poteva durare: era condannato alla distruzione. Si trattava dunque di disonestà, né più né meno.
Sarà a Parigi che l’autore cambogiano scriverà la seconda parte de L’anarchico (nel 1979, due settimane prima che l’esercito vietnamita entrasse in Cambogia per sgominare i khmer rossi), che aggiungerà a quello che inizialmente era intitolato Senza pietà, le chiappe all’indietro, un romanzo breve pubblicato in Cambogia nel 1967, vietato dalle autorità e venduto clandestinamente.
Le due parti del libro, scritte a oltre dieci anni di distanza l’una dall’altra, hanno un filo conduttore nell’affrontare la sconfitta, la perdita, l’incapacità dell’uomo di non vedere, e denotano un pensiero politico e sociale affatto scontato nella scomposizione psicologica della voce narrante. Mescolando insieme l’autobiografia e la finzione, Soth Polin ha scritto un romanzo storico, politico e folle, dove il sesso, la morte e l’avidità la fanno da padroni.
Nella prima parte ci troviamo nella Cambogia degli anni Sessanta, durante la discutibile “terza via“ del principe Sihanouk. L’io narrante, stanco del decadimento politico e culturale della nazione, porta avanti un’esistenza da flâneur libertino nei bordelli della capitale e tra le mura della famiglia che lo ha accolto. Il protagonista è una specie di Henry Miller indocinese soltanto a tratti appagato dalle sue imprese sessuali, un misogino meticoloso nelle descrizioni anatomiche femminili che in qualche modo, tra visioni oniriche e realtà ovattata, cerca, suo malgrado, la tragedia che infine gli piomberà addosso.
La seconda parte si svolge a Parigi. L’io narrante è un tassista cambogiano che, seduto sul ciglio di una strada racconta la sua odissea (e del suo popolo) alla passeggera inglese morta a seguito di un incidente da lui provocato. Non c’è panico, non c’è dolore nel vedere una ragazza che muore, perché il dolore “nazionale” di Virak (il protagonista) è più grande della perdita di un singolo. Virak ha vissuto nella Cambogia attanagliata dalla furia cieca dei khmer rossi, delle bombe americane, dell’ortodossia vietnamita oltreconfine. I cambogiani hanno vissuto l’olocausto (con la benedizione dei cristiani marxisteggianti europei) e tutto il resto è insignificante dolore quotidiano. Poca cosa davanti a un popolo quasi totalmente annientato.
Doloroso, lirico, a tratti sgradevole, L’anarchico è un crudo atto di accusa scritto attraverso un punto di vista originale. Un libro bellissimo, che ci mette davanti alle nostre dimenticanze e alla nostra semplicistica visione mainstream del mondo.
Pensare ai figli oggigiorno non è di moda in questa nuova Bisanzio che scivola nel piagnucolio. Dove ci si intenerisce in modo spropositato per cani, topi, cuccioli di foca… gangster e terroristi. Ma non si scendeva mai in strada per quei bambini cambogiani a cui fracassavano la testa a bastonate durante la notte totale di questa rivoluzione dantesca.