Una vita a fare gol, ad allenare una squadra, a massaggiare i muscoli dei giocatori o a gestire la carriera di campioni. Poi ad un certo punto il mondo del pallone non lo senti più tuo e preferisci allontanartene, iniziando a fare tutt’altro. Sono molti gli esempi di disillusi che dopo una lunga carriera hanno trovato la loro strada altrove. Perché quello di oggi non è più il loro calcio. Attaccante negli anni Ottanta e Novanta con le maglie di Ascoli, Bari, Pisa, Cesena, Palermo, Lorenzo Scarafoni da sette anni ha uno stabilimento balneare a Marina di Altidona (nelle Marche) gestito con la moglie. “Oggi faccio il cuoco – sorride, mentre parla a ilfattoquotidiano.it – con il calcio ho chiuso, guardo solo qualche partita di Champions in tv. Dopo aver concluso la carriera da calciatore, ho fatto tre anni il vice di Mazzone, poi mi sono messo ad allenare per conto mio, ma non è facile restare nell’ambiente se non sei allineato con quelli dei giri giusti. Non erano tutte rose e fiori neanche quando giocavo, ma oggi la credibilità degli addetti ai lavori è allo 0,00 per cento. C’è gente che paga per allenare, ma non do la colpa al sistema, non è per questo che non sono riuscito a impormi come mister, probabilmente avevo anch’io dei limiti. Ma non ho nessun rimpianto. Gli ex compagni passano da me, si fanno una giornata al mare, secondo me alcuni mi compatiscono, io però sono orgoglioso di quello che faccio. Penso siano loro a non essere mai riusciti a entrare nella vita normale, dopo aver smesso di giocare”.
Così come Scarafoni, anche il romano Paolo Baldieri è stato attaccante della Nazionale Under 21, quella di Vialli e Mancini. Da una decina d’anni gestisce con la famiglia una gelateria artigianale a Lecce, dove ha giocato tanto. “Ho chiuso vent’anni fa dopo sette stagioni in Federazione, mi è arrivata una lettera: arrivederci e grazie. Per me il bello del calcio – racconta a ilfattoquotidiano.it– è stato quando da piccolo sognavo di fare il calciatore, poi sono stato bene ma solo in provincia dove ero considerato anche come essere umano. Ho scelto quindi di crescere i miei figli, di trasferire la famiglia in Salento, godendomi la vita. Ho rallentato, prima andavo troppo veloce. In gelateria ho imparato a fare tutto, dal lavare le tazzine a preparare i gusti più particolari. Conoscere bene il mestiere mi ha dato la sicurezza di sapere fare qualcosa anche in prospettiva futura. L’addio al calcio per un giocatore non è traumatico, è traumaticissimo. Recentemente la Roma mi ha chiamato per il quarantennale dello scudetto, ma non ci sono andato: quell’anno avevo fatto solo panchine ed esordito esclusivamente in Coppa Italia. Quando allo stadio hanno enunciato il mio nome, io ero a pesca in mare”.
Come allenatore Stefano Di Chiara ha fatto tanta Serie C, dopo una carriera da calciatore in B e in A, anche insieme al fratello minore Alberto. Oggi vive a Ostia e dalla sua casa vede il mare. “Mi hanno messo nelle condizioni di allontanarmi dal calcio – dice a ilfattoquotidiano.it – ho chiuso, anche se è stato la mia vita. Oggi i procuratori hanno rovinato il calcio e se non fai parte di certe scuderie non lavori. Funziona così: ti danno due giocatori buoni e te ne rifilano altrettanti scarsi, ti propongono un affare buono e un affaruccio piccolo. Io da allenatore pretendevo carta bianca, queste cose non le accettavo. Così sono stato etichettato come un personaggio scomodo. Ogni anno ci sono decine e decine di mister diplomati a Coverciano, ma poi dove vanno? Allenano sempre gli stessi. Non c’è meritocrazia”. Marcello Bonetto ha iniziato a lavorare come procuratore sportivo nel 1984. Nel 1996 è diventato il primo Agente FIFA italiano. Negli anni assisterà Zambrotta, Jorgensen, Gilardino, Balzaretti, Padovano e molti altri, fino a Messias. Dal 2021 non ha rinnovato la tessera e oggi non appare più nell’albo degli Agenti sportivi. Ha da poco raccolto le sue memorie e quelle del padre Beppe nel libro “Cose di calcio, Cose da Toro“. “È stata una scelta personale e consapevole – dice a ilfattoquotidiano.it – il mondo del calcio mi manca zero. Le scorrettezze ci sono sempre state, ma da una decina d’anni il fatto di comprare la procura di un giocatore è diventata quasi la norma, spesso è anche riciclaggio di denaro sporco. Al di là delle questioni morale e penale, quanto capace, professionale e onesto può essere uno che paga per lavorare per un calciatore?”.
Stefano Favini è il figlio di Mino, uno dei più grandi talent scout della storia del calcio italiano. Come massaggiatore Stefano ha lavorato tra gli Ottanta e i Novanta nel Como e per una decina d’anni è stato in Federazione nelle varie Under. “Mi sono disinnamorato del calcio, premesso che non ho mai avuto la passione totalizzante di mio papà, che in testa aveva il pallone e il pallone. Dal Como sono stato mandato via perchè Beppe Marotta voleva che mi tagliassi il codino, non l’ho fatto, salvo andare a ritirare la liquidazione completamente rasato. Oggi non tornerei nel mondo del calcio, mi fa arrabbiare che per chi manda avanti la carretta in un club, i soldi sono sempre finiti. I procuratori? I trafficoni nel sottobosco ci sono sempre stati e si conoscevano. Adesso lavorano in piena luce, vengono riveriti ed è stata data loro l’autorizzazione all’esercizio fino alla completa presa di potere dell’ambiente. Il tuo procuratore dovrebbero essere le tue prestazioni: se un procuratore per i propri interessi inverte i meriti non rispetta la legge primaria dello sport”.