Mentre l’Italia – un po’ accaldata, talora boccheggiante ma sul “chi va là” per i probabili disastri idrogeologici di fine estate – si strugge nel dibattito tra negazionisti e attivisti climatici, il clima cambia per davvero. E non vale invocare ogni acquazzone per lamentare la crisi climatica. Accadeva già nel 1966. Per giustificare l’ignavia di chi non aveva previsto l’eventualità del disastro nonostante la millenaria collezione storica delle alluvioni fiorentine, qualche esperto e parecchi meno esperti insinuarono che la tragedia fosse l’esito di un destino cinico e baro, un cambiamento del clima nell’Italia centrale manovrato dal cielo.

Il clima cambia e sta cambiando perché i suoi indicatori – valori medi e statistiche del secondo ordine – lo stanno evidenziando al di là di ogni ragionevole dubbio. Incolpare il cambiamento climatico per i disastri idrogeologici è la moderna versione del castigo divino. Ancora nel 2015 i preti ortodossi avevano spiegato la furia idraulica della natura contro la città di Tbilisi invocando la vendetta divina, giacché la spesa per costruire lo zoo era stata coperta fondendo le campane di un monastero. La stessa interpretazione che Pio IX, massimo esperto del divino che pontificava dalla cattedra di San Pietro, diede dell’alluvione romana del dicembre 1870, il castigo divino per l’affronto del re piemontese.

Sul tema del riscaldamento globale non andavo d’accordo con il professore Yevjevich, il più importante e decisivo dei miei maestri. Padre dell’idrologia statistica, affermava che un cambiamento è scientificamente riconoscibile quando la deriva delle statistiche del fenomeno consente di affermarlo con ragionevole certezza. Nelle nostre conversazioni a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, il professore era perentorio su questo argomento: i dati non davano alcuna certezza. E, credo, la stessa perentoria convinzione lo accompagnò nel servire il presidente del suo paese quale assistente scientifico durante il Summit della Terra (1992). A Rio de Janeiro, George Bush non fece altro che sostenere il ruolo di leadership globale degli Usa: “la politica ambientale non sarà dominata dagli estremismi, perché credo nello sviluppo economico oltre a quello della protezione dell’ambiente, è la cosa più giusta”. E Bush riteneva che il suo paese avesse “il miglior record ambientale del mondo”.

Ho affermato più volte, anche su questo blog, che il controllore principale se non esclusivo del clima terrestre sono gli oceani. E i dati di quest’anno danno un brutto colpo alle speranze di Vujica Yevjevich che, sono convinto, cambierebbe idea di fronte a queste evidenze se non ci avesse abbandonato 17 anni fa. Un dato su tutti, richiamato un po’ alla buona da molti media in questi giorni: la temperatura dell’Oceano Atlantico.

Si tratta di un’anomalia assai significativa, se ne valutiamo l’entità osservata nel nord Atlantico. Alcuni potrebbero perfino ritenere questa anomalia la dichiarazione di resa esplicito: la “guerra climatica” è perduta. Secondo questa lettura, l’anomalia costituirebbe un tipping point climatico, una soglia di non ritorno. Lo sapremo solo vivendo.

Temperatura e salinità regolano le correnti oceaniche e, perfino, la corrente di Gibilterra che alimenta il Mediterraneo. Non vale la pena soffermarsi qui sui possibili effetti di un collasso della circolazione nord atlantica: sono chiaramente spiegati da un articolo scientifico pubblicato di recente (P. Ditlevsen & S. Ditlevsen, Warning of a forthcoming collapse of the Atlantic meridional overturning circulation, Nature Communications, 14:4254, 2023). E il meccanismo è noto da lungo tempo (S. Manabe & R.J. Stouffer, Two stable equilibria of a coupled ocean-atmosphere model, Journal of Climate 1, 841–866, 1988). Vale invece la pena di constatare che le osservazioni, ossia le misure sperimentali, indicano con ragionevole certezza statistica che stanno mutando i fondamentali della macchina del clima. I comportamenti estremi sono soltanto dei corollari.

Il clima cambia, sta cambiando e cambierà. Lo ha sempre fatto, nel corso dei secoli. Ma con velocità cento volte inferiore e con una accelerazione pressoché nulla. E sui record ambientali americani nutro perfino qualche perplessità, quando guardo i dati di un lavoro scientifico recente, ancora in revisione, senza bisogno alcuno di commenti. L’effetto serra ha sempre tenuto una calda, affettuosa compagnia all’umanità da quando l’umanità ha messo piede sul pianeta. Se non le attività umane, chi sarebbe il birichino che ne stimola la rapidissima intensificazione?

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