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Golpe in Niger, lo stop dell’Occidente alle sovvenzioni affamerà ancora di più il popolo

di Andrea Vivalda

“Dopo cinquant’anni di sfruttamento, non abbiamo ancora capito se l’uranio sia una benedizione o una maledizione per il Niger”. Lo diceva nel 2017 il presidente di Aghir In’man, l’associazione locale nigerina che dal 2001 si batte per una più equa redistribuzione dei proventi dall’industria estrattiva del paese. Colonia francese dal 1898 dopo il massacro di Birni N’Konni, che mise a ferro e fuoco il Niger meridionale (una delle pagine più vergognose del colonialismo francese) con l’incoraggiamento dato ai capi locali a ricorrere anche agli abusi come mezzo di controllo sulla popolazione, il Niger è oggi il quarto produttore mondiale di uranio e, al tempo stesso, il vincitore della classifica negativa che lo vede da decenni agli ultimi posti dello Human Development Index.

Nella fase postcoloniale, come accaduto a molte nazioni del secondo e terzo mondo ricche di risorse, il controllo (e lo sfruttamento) da parte delle grandi potenze mondiali si è trasfigurato dalla forma colonialista alla forma odierna del governo pseudo-democratico che mantiene la popolazione locale alla mera sopravvivenza con fondi provenienti da occidente, utilizzandola come forza lavoro sottopagata per le attività estrattive i cui frutti (miliardari) ritornano in occidente. La capofila delle società straniere che estraggono uranio dal Niger è Areva, leader mondiale dell’energia nucleare controllata all’80% dallo stato francese, che fin dagli anni 70 ha ottenuto concessioni pluridecennali consentendole di fatto il monopolio sull’uranio nigerino. L’attuale presidente unanimemente riconosciuto dai paesi occidentali e deposto nel golpe di pochi giorni fa, Mohamed Bazoum, è sostenuto dall’élite economica dell’industria estrattiva delle compagnie francesi, in un quadro politico che da decenni mantiene la popolazione a standard minimi di sussistenza, mantenendo stabili estrazione e guadagni per i potentati d’occidente.

Non manca poi a difesa dell’élite – come da tradizione del neo-colonialismo mascherato da pseudo-democrazia filantropa – la presenza militare occidentale ipocritamente apostrofata “azione di peacekeeping”: più di 3mila unità, fra le quali trecento italiane. In questo quadro, non stupisce che la comunità occidentale all’unisono si sia allineata sull’interruzione dell’invio di sovvenzioni al paese africano come “punizione” per la ribellione, benché sia palese che ciò non farà altro che ridurre ulteriormente alla fame un popolo già gravemente vessato; come non stupisce che il messaggio mediatico unico occidentale sentito in questi giorni classifichi il governo deposto come “quello dei buoni”.

Peccato che senza quel governo “buono”, se la popolazione nigerina – invece che essere mantenuta dal potere occidentale allo stato di povertà comprimendo ogni sua possibilità di sviluppo – fosse invece resa libera di usufruire direttamente delle risorse della propria terra, sarebbe probabilmente fra le più benestanti al mondo. “Lo sfruttamento dell’uranio illumina una lampadina su tre in Francia, mentre in Niger oltre l’80% della popolazione non ha accesso alla corrente elettrica”, raccontano le organizzazioni per i diritti della popolazione.

Lo stato di profonda povertà e di impossibilità di mobilità sociale nella quale è mantenuta da decenni la popolazione fa allora comprendere il perché dell’assedio all’Ambasciata francese (rappresentante della potenza che più di ogni altra sfrutta le risorse del Niger); fa comprendere il perché di una popolazione in ribellione che sostiene e affianca i golpisti contro il governo sostenuto dall’occidente: forse non sono i ribelli “i cattivi”? Certo, è possibile che la “giunta militare” che ha condotto il rovesciamento del potere sia spalleggiata da altre potenze e interessi economici esterni, ma non si possono certo collocare dalla parte dei “cattivi” i cittadini che supportano la lotta nell’ideale della liberazione e dell’autodeterminazione del proprio paese; un paese vessato, sfruttato e depredato da ormai oltre un secolo.

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