Avevo appena finito di scrivere sul Fatto Quotidiano di sabato scorso che i rappresentanti del fu ceto medio riflessivo (facevo i casi emblematici di Cirinnà che cita la proprietà comune della terra degli Aymara per promuovere la sua azienda privata di 130 ettari di terreno e di Repubblica per via il padre del proprietario e il suo treno per Foggia) avevano smesso di dissimulare e non avevano più pudore nel rappresentarsi come rivolti a tutt’altro ‘pubblico’, che è arrivato Piero Fassino a confermare in pieno quella lettura e a tacitare qualche risentita replica ai miei argomenti. Invece di vergognarsi, da ex Pci-Pds-Ds, di lagnarsi per emolumenti di 13.000 e rotti euro al mese, si permette di andare in Parlamento ad agitare il cedolino per raccontare di guadagnarne meno di 5.000, che avrebbero comunque indotto una persona normale a ritenere di godere di un ottimo stipendio.
Ed è del tutto inutile agitare l’argomento del ‘populismo’, qualsiasi cosa voglia dire (spesso niente): si tratta appunto di pudore.
L’accusa di populismo in questi anni è stata il grimaldello ideologico per poter sgonfiare le pretese sacrosante di una politica che avesse ancora un contatto con la realtà, che non si costituisse come un agone separato con regole separate e una concezione dei diritti, dei privilegi, delle chances di ascesa sociale e di miglioramento della propria condizione separata. Si è affermata, per contrastarlo, una demagogia delle élite, assistite da volenterosi coreuti (giornalisti, accademici, professionisti, imprese, Ue, etc.) e determinata ad affermare in sua vece una forma di tecno-populismo fondato sul mantra delle cosiddette (e spesso autocertificare circolarmente dalle stesse élite che se le intestavano) competenze.
Questa demagogia è stata orientata a decostruire l’idea della ‘casta’, dei privilegi, dello scollamento tra rappresentanti e rappresentati che in questi anni hanno avuto una certa fortuna politica: essa mira a giustificare il fatto che quei privilegi castali siano più che legittimi, che gli stipendi dei parlamentari siano meritati, che se non c’è corrispondenza tra voto e governo e tra volontà popolare e decisione politica, ciò dipende dal fatto che le competenze autorizzano l’istaurazione di un’epistocrazia.
Si ricorderà per esempio una delle definizioni di questi ultimi anni: “governo dei migliori” (e lasciamo stare se i risultati facevano pensare ad altro, e certamente avvicinavano i migliori a coloro che, senza blasone, non avevano le mostrine della Bce), il governo trasformato in una selezione per cacciatori di teste e il parlamento a una ridotta di cooptati (che per poterlo essere devono agire in linea con i leader che elaborano le liste e distribuiscono i posti). Teste che però si selezionano tra di loro, con risultati non esaltanti. Perché il punto è esattamente questo, dacché si è sperato che la politica riuscisse ad auto-riformarsi dandosi delle regole finalmente accettabili dai cittadini: limite dei mandati, riduzione dei costi della politica, turn-over generazionale, spazio alle donne, etc. Speranze naufragate dal momento che erano state affidate all’autonomia (e all’autodichia) degli organismi non solo politici (i partiti) ma anche istituzionali (il governo, il parlamento). Ai quali non è invece parso vero abusare della capacità autoregolativa che gli è propria per continuare a godere di prebende e privilegi. Tanto che c’è perfino chi sostiene di non averne abbastanza.
Beninteso, i politici vanno remunerati, e anche bene. Ma tra pagare i politici per evitare che solo i ricchi si impegnino nella gestione della cosa pubblica e diventare ricchi con la politica ce ne corre. Tra svolgere un servizio per la collettività senza essere ricattabili per le proprie opinioni perché si ha di che vivere e costruire un’avida gerontocrazia fallocratica ce ne corre. Tra mettersi al servizio degli altri e diventare dei semidei intoccabili per pluridecennale convinzione che siano i cittadini al servizio dei politici, ce ne corre. Ma quel che è triste è che, come dicevo, non vi sia neanche più il pudore della propria ricchezza, della propria condizione. E se i politici non ce la fanno da soli, si vede che i contesti che frequentano e gli inner circle che li sostengono sono fatti della stessa pasta, dal momento che non c’è tra essi nessuno che abbia i piedi piantati in terra e ti stia vicino e ti dica: “Ma ti pare? Evita”. Si vede che si tratta di persone che per vedere la gente comune devono organizzare dei safari.