L’estate in corso sarà ricordata come quella delle piogge torrenziali e dei nubifragi al Nord e in Centro Italia, ma anche per le emergenze legate alla siccità. Come quella del Lago Maggiore, le continue incognite sulla disponibilità idrica per irrigare i campi tra Piemonte e Lombardia e la chiusura dell’invaso toscano della Marana, a Bagnone (Massa-Carrara), rimasto a secco per il secondo anno consecutivo. La Cabina di regia sull’emergenza idrica ha assegnato priorità ai progetti di dissalatori di acqua marina “come strumento di transizione per affrontare le fasi di emergenza” e, con il dl Siccità, il Governo Meloni ha poi rivisto l’assoggettabilità alla Valutazione di impatto ambientale dei dissalatori introdotta con la Legge Salvamare. Tutto questo, nonostante associazioni ambientaliste, tecnici ed esperti invitino a valutare con analisi costi-benefici se e dove sia opportuno realizzare tali impianti. In Italia, in effetti, si ha poca esperienza diretta su costi, consumi e impatti dei dissalatori. Ma la Penisola, che in piena estate deve difendersi da temporali e nubifragi, ha davvero bisogno di questo tipo di impianti? Ilfattoquotidiano.it ha chiesto ad Alberto Montanari, professore di Costruzioni Idrauliche, Marittime e Idrologia all’Università degli Studi di Bologna, quali siano le caratteristiche dei dissalatori e se possano essere considerati una soluzione. “Nel nostro Paese assistiamo a fenomeni siccitosi, ma non si può parlare di una scarsità idrica tale da giustificare gli investimenti che i dissalatori oggi richiedono” spiega Montanari. E nel futuro? “Considerando gli scenari climatici che si prospettano potrebbe diventare una soluzione interessante, ma in aree specifiche e se l’avanzare della tecnologica consentirà di abbattere i costi”.
Il governo ha citato come modello il progetto presentato dal sindaco di Genova, Marco Bucci, che prevede di miscelare l’acqua proveniente dai depuratori a un’eguale quantità di acqua marina, per poi trasportarla in Pianura Padana, utilizzando una popeline inutilizzata al porto di Genova. Progetto sostenuto dal presidente della Regione Giovanni Toti e, naturalmente, dalla WeBuild, società che deve costruire anche il Ponte sullo Stretto di Messina. Professore, oggi i dissalatori sono davvero una priorità?
Per guadagnare resilienza rispetto ai fenomeni di siccità, oggi le priorità sono l’aumento dei volumi di invaso di acque superficiali e sotterranee, il riuso, il controllo delle perdite e della domanda, soprattuto per l’agricoltura. I dissalatori sono considerati uno strumento efficace in Paesi con una scarsità idrica fortemente accentuata. Parliamo di un deficit permanente dell’acqua dolce rispetto alla richiesta, mentre la siccità è un fenomeno che ha carattere temporaneo. In Paesi come Spagna, Israele, Arabia Saudita si chiede una soluzione che sia permanente, che sia operativa nel lungo tempo. E non c’è neppure la possibilità di fare confronti tra costi, benefici e impatti ambientali di una soluzione rispetto all’altra, come potrebbe essere quella dell’utilizzo di acque dolci sotterranee, perché per questi Paesi il dissalatore è l’unica alternativa possibile.
Di fatto, i circa 16mila impianti attivi o in fase di costruzione in 183 Paesi, si trovano soprattutto in Medio Oriente. In Europa, la Spagna è prima con 765 impianti. Mentre in Italia sono una dozzina, di dimensioni medio-piccole e si trovano nelle isole minori di Sicilia, Toscana e Lazio.
In Arabia Saudita il 50% dell’acqua potabile è ottenuto per dissalazione. Si tratta, dunque, di una tecnica già testata e che conosciamo bene e, proprio per questo, possiamo dire che ci sono alcuni inconvenienti. Mi riferisco ai costi di produzione e, in particolare, alla richiesta alta di energia. E poi allo smaltimento dei prodotti residui, nello specifico della salamoia. Per quanto riguarda il costo di produzione, nonostante i recenti ribassi, siamo intorno 2 dollari al metro cubo, quando va bene. Ma il prezzo all’utenza arriverebbe ad alzarsi di molto rispetto alle tariffe attuali (considerando costi fissi, di fognatura e depurazione, si arriva a 1,52 euro al metro cubo, ndr). Va detto che i costi stanno calando, perché si sta affinando la tecnologia e questo rappresenta una speranza per il futuro, anche per gli impatti ambientali. Quello più significativo è relativo ai residui da smaltire. La soluzione più ovvia sarebbe quella di rilasciare il sale in mare ma, in questo modo, si creerebbe un pennacchio di salinità estremamente elevata. Nel Mare Adriatico, dove il fondale marino non è molto profondo, questa salinità potrebbe causare un impatto sull’ecosistema molto grave, tanto che – in specifiche aree – poche specie potrebbero sopravvivere. Si sta lavorando sul recupero del sale, ma si tratta di una tecnologia che, a sua volta, richiede molta energia e non risolve del tutto il problema. Perché rimangono dei residui che sono contaminati e altamente impattanti.
Ci sono diversi tipi di dissalatori, a seconda della tecnica utilizzata per togliere il sale dall’acqua o l’acqua dai sali. Ma qual è la differenza e a quali si guarda in Italia?
Quando parlo dei costi che si abbassano, mi riferisco alla tecnologia a osmosi inversa, chiamata anche dissalazione per permeazione. È una tecnica attraverso cui si separa il sale: l’acqua viene filtrata attraverso delle membrane semipermeabili. Oggi la ricerca è molto attiva sull’ingegneria dei materiali più adatti alle membrane. Sono questi gli impianti che ci consentono di avere le prospettive migliori anche rispetto a un possibile contenimento dei costi. Resta, però, il problema dell’alta richiesta di energia e delle conseguenti emissioni di anidride carbonica. Stiamo parlando di 10-13 kilowattora per circa 4mila litri, che corrispondo ad appena 4 metri cubi. E gran parte di questa energia è ricavata dalla combustione di combustibili fossili.
Altre tecnologie sono da scartare?
La tecnica utilizzata nei dissalatori a evaporazione (con l’acqua che si riscalda e viene mentre in basso rimangono sale e scarti, ndr) è ancora più costosa e richiede ancora più energia (oltre a produrre fino a quattro volte più salamoia, ndr). In alcuni casi vengono applicati degli impianti integrati, che prevedono l’osmosi inversa seguita da evaporazione, per recuperare più acqua possibile. La dissalazione per scambio ionico (tramite rimozione di ioni di sodio e cloruro, ndr) viene invece impiegata per piccolissime portate, dell’ordine di un metro cubo all’ora al massimo. Per intenderci, nell’osmosi inversa andiamo da uno a 10mila metri cubi all’ora.
Tornando, allora, ai dissalatori a osmosi inversa, come si può ovviare al problema dei costi e della richiesta di energia, con le relative emissioni? Un dissalatore può essere alimentato da un impianto di energie rinnovabili.
Laddove c’è scarsità idrica ci sono più esposizione al sole e, normalmente, anche più vento perché la mancanza di acqua è anche generata da un eccesso di evaporazione che, a sua volta, è causato da un eccesso di ventilazione. La discontinuità delle rinnovabili potrebbe essere controbilanciata avendo a disposizione adeguati volumi di acqua negli invasi, da poter distribuire a tutte le ore, quando ce n’è bisogno. Per l’uso civile, che ha una richiesta molto inferiore rispetto all’irrigazione, potrebbero bastare rinnovabili e invasi di piccole dimensioni.
E industria e agricoltura che, da sola, rappresenta circa il 55% della domanda idrica?
Nella gestione delle risorse idriche si raccomanda la diversità delle fonti. È chiaro che non può essere la risposta alla richiesta idrica per l’irrigazione ma, se si risparmia per uso civile, l’agricoltura potrà beneficiare di una maggiore disponibilità, attraverso le fonti convenzionali. Nei Paesi come la Spagna o Israele, dove la dissalazione viene operata anche per l’irrigazione, i gap dovuti alla discontinuità delle rinnovabili devono essere colmati anche con l’utilizzo di combustibili fossili.
Ma i dissalatori richiedono investimenti. Quello di Dubai, uno tra i più grandi al mondo, è costato circa 3,5 miliardi di euro. I costi variano da decine a centinaia di milioni di euro, a cui vanno aggiunti quelli di gestione. Sono giustificati?
Solo se l’impianto opera in continuità. Perché se entrasse in funzione saltuariamente, i costi di manutenzione (che rimangono invariati) andrebbero a incidere molto di più sul costo della risorsa dissalata. Faccio un esempio: anche se utilizzo l’auto una volta all’anno, devo comunque cambiare le gomme ogni cinque anni e fare il tagliando.
Qual è, allora, l’utilizzo che potrebbe farne l’Italia?
In generale, in Italia, la siccità è un problema che non si presenta in continuità, per questo non può essere definita ‘scarsità idrica’. In gran parte del Paese si rischierebbe di avere per nove mesi all’anno i dissalatori fermi e, in alcuni casi, anche per tutta la durata dell’anno. È questo il motivo per cui in Italia ce ne sono pochi e, in casi di emergenza, si è scelto di utilizzare dissalatori mobili. L’investimento non è giustificato. Nelle condizioni climatiche attuali, anche in aree come la Sicilia non si può parlare di scarsità idrica. Qui, però, o in alcune isole minori dove le proiezioni climatiche possono far prefigurare per il futuro una situazione di scarsità idrica, il dissalatore potrebbe diventare un’alternativa praticabile, soprattutto se con l’avanzamento della tecnologia, come sicuramente avverrà, i costi verranno abbattuti.