Torno ancora con una riflessione sulla proposta delle opposizioni di un salario minimo per legge. Ero abbastanza curioso di conoscere le ragioni della contrarietà della premier Meloni. Infatti la ragione canonica che vede un legame diretto tra salario minimo e aumento della disoccupazione cara alla destra non regge minimamente, visto che un salario minimo esiste in quasi tutte le economie sviluppate, né possiamo accettare l’idea di Tajani del confronto con la Russia. Ecco allora che la premier, forse pensando ad una mossa astuta e certamente su indicazione di qualche suo consigliere economico ombra, ha cambiato direzione di marcia dichiarando che, pur avendo a cuore il problema, ha il timore che una legge sul salario minimo possa portare ad una riduzione generalizzata dei salari che verrebbero inevitabilmente attratti verso il basso, cioè verso il minimo legislativo.
La tesi Meloni che il salario minimo per legge farebbe una concorrenza sleale alla contrattazione collettiva esistente è ancora peggiore della tesi tradizionale della disoccupazione, e anche politicamente poco onesta. Partiamo da questo secondo aspetto. Forse Meloni è un poco smemorata e non si ricorda che appena qualche mese fa la sua maggioranza ha licenziato la legge sull’equo compenso dei professionisti. In quella sede nessuno ha sollevato la questione della “attrazione” dei compensi dei professionisti verso il minimo legislativo, e dunque verso il basso. Tutti invece hanno applaudito al fatto che il professionista veniva tutelato nel suo rapporto di lavoro di fronte ad un contraente forte, come ad esempio una banca. Ora quello che vale per i professionisti dovrebbe valere anche per i lavoratori e le lavoratrici che percepiscono salari attorno ai 5-6 euro lordi allora. Il governo Meloni sta usando due pesi e due misure: tutela alla grande i professionisti ma ignora completamente le esigenze dei lavoratori poveri. La destra sociale pare si sia estinta andando al governo. Comunque questa discriminazione è una piccola o grande vergogna.
Mi interessa di più l’argomentazione economica chiamata in ballo, che risulta francamente per nulla convincente. Affermare che il salario minimo per legge porterebbe ad una sostituzione salariale nella contrattazione collettiva è una specie di teatro dell’assurdo, economicamente parlando. È difficile immaginare che, in caso di approvazione della legge, Confindustria o Confartigianato chiedano una riduzione dei salari a causa della nuova normativa. Questo può accadere solo nella mente fantasiosa di chi ha veramente poca esperienza delle trattative sindacali. Invece quello che potrebbe accadere è esattamente l’opposto. Gli imprenditori non sono entusiasti di una legge sui minimi salariali, non solo perché ciò porta ad un inevitabile aumento dei costi, ma anche perché si potrebbe verificare una specie di problematico bradisismo salariale. Se il salario più basso aumenta, anche tutti gli altri livelli salariali potrebbero aumentare per mantenere inalterata la gerarchia di mansioni e retribuzioni. Quindi opponendosi al minimo salariale il governo fa semplicemente gli interessi molto conservatrici delle imprese, affermando falsamente di tutelare i salari.
Se poi volessimo dare anche un fondamento etico-giuridico al principio di un salario dignitoso potremmo citare non solo l’art. 36 della Costituzione, come spesso viene indicato. Qualcuno potrebbe andare anche più indietro nel tempo. Infatti il dettato costituzionale ricalca nella sostanza l’art. XII della Carta del Lavoro Fascista del 1927. Si può dire allora che l’idea di un salario minimo sia pienamente coerente anche con il nostalgico retroterra culturale e ideologico della premier senza soluzione di continuità.
Se poi ci chiedessimo come mai questo tema sia diventato solo ora di scottante attualità, qui il discorso sarebbe lungo e dovrebbe toccare le trasformazioni del capitalismo contemporaneo, caratterizzato dalla netta predominanza delle attività legate ai servizi. Molte di queste attività sono di tipo tradizionale e ad alto valore aggiunto, e quindi ben tutelate contrattualmente, come nel caso dei servizi bancari o assicurativi, mentre quelle nuove si muovono in un mercato del lavoro molto frastagliato e precario. La rivoluzione tecnologica ha trasformato in profondità il mercato del lavoro indebolendo le tradizionali dinamiche sindacali. In fondo la gig economy, l’economia dei lavoretti sottopagati o dei servizi a basso valore aggiunto, fino a due decenni fa quasi non esisteva, mentre ora copre una quota importante, e poco tutelata, del mercato del lavoro. In definitiva sono le nuove dinamiche redistributive del tecnocapitalismo che richiedono uno sforzo di regolamentazione sociale, verso il basso ma anche verso l’alto nel caso dei super redditi, da parte di una politica con la lettera maiuscola.
Se poi si vuole stare comunque dalla parte delle imprese per ragioni ideologiche o di convenienza elettorale, basta fare uno sforzo di verità e semplicemente dirlo, senza inventarsi argomentazioni tanto fasulle, quante campate per aria. Non si può certo sentire, senza provare un brivido per la sua totale assurdità, l’affermazione che una legge sul minimo salariale danneggerebbe i lavoratori. Pare comunque che la premier sia sulla via del ravvedimento e che voglia aprire un confronto su questa tema con l’opposizione. Questa sì, sarebbe una mossa astuta a meno che non sia, calcisticamente, la classica melina a centrocampo per prendere tempo e aspettare il novantesimo minuto, cioè le elezioni europee dell’anno prossimo.