Leggendo le 7683 pagine della sentenza “Gotha”, la sensazione è che per 15 anni Reggio Calabria abbia vissuto una stagione diversa da quella che il centrodestra ancora oggi rivendica con nostalgia. Della “Reggio da bere”, sciolta per mafia, seppellita sotto una montagna di debiti (che hanno pagato i cittadini) e rimpianta dai “Peppe boys” (gli ex sostenitori di Giuseppe Scopelliti oggi riciclati sotto le bandiere di Giorgia Meloni e Matteo Salvini), rimane solo una cartolina sbiadita e qualche pagina del libro che l’ex sindaco e governatore sta presentando in giro per ricordare gli anni in cui da Roma scendevano le truppe cammellate di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini per incoronarlo enfant prodige del centrodestra calabrese.
Secondo il Tribunale di Reggio Calabria, che ha sposato l’impianto accusatorio della Direzione distrettuale antimafia, la storia è completamente diversa ed è quella di un puparo, Paolo Romeo (l’avvocato ed ex parlamentare del Psdi cresciuto nelle file di Avanguardia nazionale, condannato in primo grado a 25 anni di carcere), e di tanti pupi come Scopelliti (non imputato) e l’ex consigliere e assessore regionale Alberto Sarra a cui il giudice Silvia Capone ha inflitto 13 anni di carcere su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri, degli aggiunti Giuseppe Lombardo e Stefano Musolino e dei pm Walter Ignazitto, Sara Amerio, Roberto Di Palma e Giulia Pantano.
È stato assolto, invece, l’ex senatore Antonio Caridi per il quale, secondo il Tribunale, “non vi sono elementi, tratti dalle intercettazioni, per poter affermare che prendesse parte alla struttura riservata della ‘ndrangheta” che aveva il compito di “definire le strategie di massimo livello dell’organizzazione, col fine di estendere il programma criminoso verso gli ambiti di maggior interesse, con particolare riferimento a quelli informativi e imprenditoriali, economici, finanziari, bancari, amministrativi, politico-istituzionali ed interferendo in quest’ultimo caso anche con enti locali ed organi politici di rilievo costituzionale”.
Pur definendolo “politico spregiudicato e avvicinabile”, nelle motivazioni depositate a due anni dalla sentenza, per i giudici di primo grado i riferimenti dei pentiti a Caridi “sono tutti generici e privi di circostanze specifiche idonee ad individuare il ruolo specifico che il politico avrebbe svolto all’interno delle singole famiglie criminali”. In un’intercettazione del 2002, inoltre, “Paolo Romeo prima e Giuseppe Valentino (l’ex sottosegretario alla Giustizia, ndr) dopo, – riassume il Tribunale – estendevano a Caridi il disegno di costituzione degli uomini a disposizione della ‘ndrangheta all’interno delle istituzioni”. Analizzando quella conversazione, i giudici arrivano alla conclusione che “sino al 2002 Caridi era stato un ‘battitore libero, estraneo ai disegni di Paolo Romeo”.
Disegni in cui rientrava, invece, l’ex consigliere e assessore regionale Alberto Sarra che è stato condannato perché considerato “uno strumento nelle mani di Paolo Romeo e Giorgio De Stefano (per il quale la Cassazione ha annullato la condanna in secondo grado disponendo un nuovo processo d’appello, ndr) per garantire alla ‘ndrangheta di infiltrare gli enti pubblici locali e per ciò stesso realizzare la possibilità di interferirne sul regolare funzionamento”. Il profilo di Sarra tracciato dal Tribunale è impietoso quando descrive il politico reggino “espressione soggettiva della ‘ndrangheta, collaudato collettore di voti per sé e per gli altri candidati, trasponder tra la classe politica e la criminalità organizzata dei tre mandamenti, ai quali offriva costantemente disponibilità a raccordare gli interessi privati della criminalità con l’azione degli enti pubblici, per il perseguimento di interessi particolari delle famiglie criminali, e conseguente condizionamento dell’attività amministrativa”.
Se Paolo Romeo era il burattinaio, nel suo disegno criminale c’era anche Giuseppe Scopelliti che viene eletto sindaco di Reggio Calabria nel 2002 e confermato nel 2007, dopo essere stato già assessore alla Regione e il più giovane presidente del consiglio regionale. Sempre da non imputato, il suo nome fa capolino in ben 962 pagine della sentenza di primo grado dove i giudici spiegano che “Romeo non mancava di interpretare il suo ruolo di grande stratega politico, facendo apparire Scopelliti come una sorta di pedina, che in tal caso doveva assecondare l’intesa Forza Italia-An ed Udc, ridimensionando il suo ruolo personale al punto da dichiarare che qualora non avesse governato assicurando il coinvolgimento di tutte le forze politiche che lo avrebbero sostenuto sarebbe stato sfiduciato, e si sarebbe tornato a votare”. “Un cane da mandria” insomma. Il copyright non è del Tribunale ma di Paolo Romeo che, conversando nel 2002 col senatore Antonio Caridi, all’epoca assessore comunale, spiegava a quest’ultimo che la scelta sul vicesindaco non era una valutazione di Scopelliti “ma di altri soggetti e cioè lui, Umberto Pirilli e Giuseppe Valentino”, rispettivamente ex parlamentare europeo ed ex sottosegretario alla Giustizia.
“Non è che Scopelliti deve dare il gradimento o meno… – erano state le parole di Romeo – non è che può dire non mi è gradito, perché se no a questo punto diventa sgradito lui. Scopelliti deve fare per davvero il ‘cane da mandria’ e deve essere rappresentante di tutti… nel senso che non faccia il podestà e allora dura, altrimenti il prossimo anno votiamo, sembra che si… vota solo quando muore il sindaco… può pure morire politicamente il sindaco… e cinque consiglieri mu ribaltanu (per ribaltarlo, ndr)… Io per quello che mi riguarda sul piano politico sarei interessato che dopo le elezioni ci fossero un gruppo di sei/sette consiglieri comunali trasversali che abbiano un’idea comune”.
Già condannato in via definitiva nel processo “Olimpia” per concorso esterno, dopo la sua scarcerazione, Paolo Romeo “era ritornato a costituire una presenza importante del panorama politico reggino, quello sommerso fatto di intrighi e strategie collaterali che coinvolgevano la criminalità organizzata”. Ritenuto una delle due teste pensanti della ‘ndrangheta, senza dubbio è l’imputato chiave del processo “Gotha” nato dalla riunione delle inchieste “Mamma Santissima”, “Reghion”, “Fata Morgana”, “Alchimia” e “Sistema Reggio”.
La sentenza è di primo grado, ovviamente non definitiva, ma bolla Paolo Romeo come “componente della massoneria segreta o componente riservata della ‘ndrangheta unitaria quale esponente della consorteria De Stefano”. Il Tribunale, inoltre, ricorda che l’ex parlamentare del Psdi “ha attraversato, pressocché indenne, almeno tre lustri in cui, salvo il periodo della carcerazione, ha esercitato il ruolo di soggetto al vertice della struttura criminale. Per l’accaparramento di risorse pubbliche, ed il controllo delle istituzioni, Paolo Romeo si avvaleva di politici spregiudicati come Alberto Sarra per il procacciamento di voti in favore di politici accomodanti o controllabili. Anche gli imprenditori mafiosi venivano mobilitati nel condizionamento del consenso elettorale, con l’impegno a riconoscergli le percezioni di importanti risorse finanziarie pubbliche”. I magistrati non hanno dubbi: “La figura di Paolo Romeo costituisce l’esempio dello sviluppo moderno del ruolo ‘ndranghetistico. I metodi praticati erano resi possibili da una fitta rete di relazioni intessute nel tempo con soggetti con ruoli istituzionali ed allo stesso tempo con la mafia tradizionale, in posizione di raccordo tra il vecchio ed il nuovo. Non si trattava solo di una semplice lobby ma di una convergenza di soggetti con ruoli istituzionali in un ente partecipato anche da soggetti appartenenti alle consorterie criminali. L’organismo in questione è la massoneria segreta, menzionata da Paolo Romeo e il senatore Giuseppe Valentino nella conversazione del 17 maggio 2002, alla quale oltre che i due interlocutori, prendeva parte certamente Giorgio De Stefano, e della quale, invece, doveva essere tenuto all’oscuro Giuseppe Scopelliti”.
E ancora: “La massoneria segreta, convergenza tra uomini delle istituzioni e vertici della ‘ndrangheta, aveva ancora interferito e si era adoperata negli anni 2002/2004, prima nel sostegno all’elezione di Scopelliti (attraverso gli interventi anche di Giuseppe Valentino per la gestione dei fondi del Decreto Reggio), poi per prevenire che ‘il sistema di potere’ potesse essere compromesso da possibili iniziative centrali di commissariamento del Comune”. Il nome cerchiato in rosso in questo caso è sempre quello di Valentino. Indagato per reato connesso ma non imputato del processo “Gotha”, è lo stesso ex senatore che Fratelli d’Italia aveva proposto nei mesi scorsi come vicepresidente del Csm e che, all’epoca, “avvalendosi del suo ruolo istituzionale di sottosegretario al Ministero della Giustizia” scrisse una lettera “all’allora ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu per ottenere il trasferimento ad altra sede del prefetto Sottile”. In un’altra occasione, invece, Valentino “incontrava il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria per cercare di trarre informazioni su eventuali iscrizioni a carico degli amministratori del Comune di Reggio Calabria”. L’obiettivo non era “proteggere il sindaco Scopelliti, la cui eventuale caduta lasciava indifferente sul piano personale il Romeo, ma ‘il sistema di potere’, in esso compresi il coacervo di risorse personali impegnate e la fitta trama di relazioni che consentiva al Romeo, ma anche a Giorgio De Stefano e Giuseppe Valentino, che pure avevano partecipato alla sua realizzazione, di eterogovernare le amministrazioni della città di Reggio Calabria”.
Una città e una storia che qualcuno ancora insiste a definire “Modello Reggio” creato dal “giovane” sindaco Giuseppe Scopelliti, ma che in realtà, al netto dei successivi gradi di giudizio, è il frutto di una strategia attuata dai riservati della ‘ndrangheta, menti raffinate cui “competeva il ruolo di preservare gli equilibri raggiunti”. Menti raffinate che, stando al processo, non erano Alberto Sarra e Giuseppe Scopelliti i quali, “a partire dal 2002 diventeranno attori di un medesimo sistema. I due, infatti, risulteranno eterodiretti da Paolo Romeo” secondo cui Scopelliti, che a un certo ha cercato di discostarsi, era semplicemente “espressione di una setta” che si muove “soltanto per un ristretto gruppo di interesse legato al gruppo di amici”. Una setta che “altro non era se non la cosiddetta ‘Reggio bene’, menzionata da Nino Fiume (pentito ed ex killer dei De Stefano, ndr), costituita per lo più da giovani rampolli di famiglie dell’alta e media borghesia reggina, frammista alle nuove leve delle famiglie mafiose”. Una “Reggio da bere” dove i riservati della ‘ndrangheta, per i loro interessi, prima nel 2002 e poi nel 2007, hanno costruito a tavolino la figura del sindaco Scopelliti dandogli il compito di fare il “cane da mandria” per poi accorgersi, come dice in un’intercettazione l’avvocato Antonio Marra (condannato a 17 anni di carcere) a Paolo Romeo, di essersi “messi dietro un carria landi”. Un carria landi è un termine dialettale che significa essenzialmente una persona poco affidabile.