Stamattina apro Twitter e alcuni miei contatti segnalano l’assurdità di un articolo di Concita De Gregorio uscito su Repubblica. Lo leggo dagli screenshot e mi pare talmente offensivo e scritto con la pancia da convincermi che si tratti di un fake. Mi rifiuto, in quel momento, di credere che una giornalista di tale livello possa lasciarsi andare a parole così vili.
Bastano pochi clic per farmi ricredere. L’articolo è vero, pubblicato da Repubblica su carta e online. L’intento di De Gregorio era quello di denunciare il comportamento di alcuni influencer che hanno distrutto una statua ottocentesca per scattarsi un selfie. La giornalista, però, non solo ha ritenuto opportuno accostare il loro comportamento alle persone disabili (“decerebrate” per la precisione), ma lo ha fatto con una violenza verbale che mostra quanto abilismo abbiamo interiorizzato a causa del trattamento che i disabili hanno ricevuto nella storia del nostro Paese. Abilismo che tentiamo di nascondere e che a volte torna prepotente.
“In un tempo non così remoto sarebbero stati alle differenziali, seguiti da un’insegnante di sostegno che diceva loro vieni tesoro, sillabiamo insieme, pulisciti però prima la bocca”. Un insulto raccapricciante alle persone disabili e a chi le affianca, che davvero trasuda disprezzo e cattiveria. Dopo aver letto queste righe, scopro che da poco sono uscite le scuse su carta di Concita, mentre online il pezzo è ancora presente in tutte le sue parti, senza correzioni, e continua a essere condiviso come nulla fosse.
Manco a dirlo, la toppa è peggio del buco. Un mix di luoghi comuni (“i cerebrolesi sono persone meravigliose”, scommetto che le conosce tutte), vittimismo e altro linguaggio abilista. De Gregorio usa “normodotati” e “handicap”, diciture che da vent’anni non sono più adottate a livello giuridico e internazionale. Purtroppo, in Italia, facciamo ancora molta fatica a eliminarle dal parlato (insieme a termini che usiamo a stregua di insulto: “mong*lo”, “d*wn”, “ritard*to”, etc); gli insegnanti di sostegno preparati, nelle scuole, ogni giorno tentano di sradicare questa terminologia dalla quotidianità degli adolescenti… eppure da una giornalista mi aspetto il minimo sindacale di attenzione e sensibilità.
E invece Concita (pun intended) nelle sue “scuse” sceglie di incolpare il “politicamente corretto” che “immobilizza il pensiero”, dice lei. Chiedere rispetto per un’intera comunità che è stata letteralmente usata per insultare degli influencer è ora politically correct. Quello fastidioso. Polemiche inutili, insomma, nonostante diverse associazioni di persone disabili, genitori e insegnanti di sostegno abbiano pubblicamente mostrato sdegno verso le parole uscite su Repubblica. La presidente di CoorDown, ad esempio, ha chiesto l’intervento del Comitato di redazione (la rappresentanza sindacale) della testata per denunciare quanto accaduto, proprio come avvenuto poche settimane fa con l’articolo di Alain Elkann sui “lanzichenecchi” in treno, che ha costretto la redazione a dissociarsi.
Cara Concita, hai scritto che per te il politicamente corretto sta paralizzando la sinistra. Per me, invece, a immobilizzare la sinistra dentro un linguaggio che non rappresenta più la realtà che vogliamo e che viviamo sono quelli come te. Sempre a frignare perché imparare le parole giuste è troppo faticoso, chiedere scusa in modo consapevole vorrebbe dire mettersi in discussione e questo – si sa – non è uno sforzo che si fa per una manciata di “decerebrati”, come li chiami tu.