Guardando a quanto sta accadendo in Niger da una prospettiva geopolitica, il colpo di stato guidato dal generale Abdourahamane Tchiani, che ha portato alla cacciata del presidente eletto Mohamed Bazoum, rischia di avere pesanti ripercussioni. Il fronte su cui queste ultime potrebbero manifestarsi con maggior forza è quello delle materie prime e dell’uranio in particolare. Tutto questo perché il paese africano è uno dei maggiori produttori al mondo del metallo, il cui utilizzo principale è quello che lo vede impiegato come combustibile per le centrali nucleari che producono energia elettrica. Oltre a questo, l’uranio è molto utile in ambito medico, industriale e, suo utilizzo più tristemente noto, nel settore militare anche per la produzione di testate nucleari. Il presidente francese Macron sta guardando con estrema attenzione agli avvenimenti nigerini, anche perché la Francia fa grande affidamento sulla produzione di energia nucleare e circa il 15% del fabbisogno francese di uranio arriva proprio da Niamey. Allargando lo sguardo al continente europeo tale quota arriva a circa il 20%, con il Niger che stando a dati ufficiali delle autorità europee nel 2021 è stato addirittura il primo fornitore continentale, scendendo poi al secondo posto nel 2022. Anche se è Parigi che nel medio periodo, al momento i depositi son ben forniti, potrebbe potenzialmente subire il maggiore contraccolpo in caso di un’improvvisa interruzione del flusso commerciale, tutta l’Unione Europea ne sarebbe investita. Orano, la compagnia pubblica transalpina che si occupa dell’energia nucleare, per ora sta continuando a operare in Niger, ma non è detto che la situazione non cambi a breve. Il 1° agosto, EURATOM, l’Agenzia Europea per l’Energia Nucleare, ha rilasciato una dichiarazione sottolineando che, anche qualora il flusso nigerino si interrompesse, la capacità di produrre energia elettrica attraverso centrali nucleari non subirebbe contraccolpi, visto che i depositi europei in essere dovrebbero garantire autonomia per almeno tre anni.
Come sempre quando si affronta il tema di materie prime così strategiche, quando un fornitore traballa la prospettiva va ampliata al mercato nel suo complesso, alla ricerca di alternative. In realtà, va detto che la Francia ha già attiva una seria politica di diversificazione dei fornitori: ad esempio, a fine giugno la ministra francese dell’Energia si è recata in Mongolia per spingere su un accordo che prevederà un investimento pari a 1 miliardo di euro nel settore dell’uranio del paese asiatico. L’intesa si dovrebbe concludere ufficialmente in autunno ma è molto probabile che venga accelerata alla luce del caos nigerino. Data anche la vicinanza geografica, l’80% delle esportazioni di uranio della Mongolia sono attualmente dirette in Cina, ma Ulan Bator punta ad ampliare il novero dei propri partner. A dominare il settore dell’uranio sono però altri player, con il Kazakistan a guidare in maniera indiscussa la classifica, con una quota di mercato globale pari a oltre il 43%. Basti pensare che a fronte delle circa 2.000 tonnellate prodotte dal Niger nel 2022, ammontare che fa del paese africano il settimo produttore mondiale, nelle miniere presenti sul territorio kazaco ne sono state prodotte oltre 21.000 tonnellate. Il secondo paese al mondo per capacità produttiva, il Canada, segue a grande distanza con 7.000 tonnellate, in un podio chiuso da un altro attore africano, la Namibia, con 5.600. Le prime posizioni vedono anche la presenza della Russia, con una quota di produzione appena sopra quella del Niger.
Proprio Mosca è stata nel 2021 la terza fonte principale dell’uranio utilizzato a livello europeo, in un ranking quell’anno guidato come già detto dal Niger seguito dal Kazakistan, diventato poi il primo fornitore nel 2022. Da questo punto di vista, quanto sta avvenendo nel paese africano potrebbe allontanare ulteriormente l’ipotesi di applicare sanzioni a livello europeo nei confronti della Russia nel settore dell’uranio e dell’energia nucleare, al momento esclusi dalle contromisure scattate dopo l’invasione dell’Ucraina. Gli occhi di Bruxelles potrebbero però poi essere puntati sulla capitale kazaca Astana, con tutte le implicazioni geopolitiche del caso. Al momento, infatti, il Kazakistan è il principale fornitore di uranio alla Russia: la maggior parte del metallo esportato da quest’ultima proviene in realtà dal territorio kazaco, perché Mosca possiede la maggiore capacità di lavorazione dell’uranio al mondo e il territorio russo è un passaggio geografico imprescindibile per la repubblica centro asiatica. Astana vende materie prime in larga quantità anche alla Cina, a maggio di quest’anno è stato oltretutto firmato un ulteriore importante contratto di fornitura sul fronte dell’uranio, e avere come principali acquirenti due pesi massimi come Mosca e Pechino (seguiti oltretutto da Washington) rende difficile per il Kazakistan ampliare ulteriormente i propri partner o anche solo le quote vendute a ciascuno di essi. Tanto più che, attualmente, difficilmente le autorità kazache sarebbero in grado di aumentare le esportazioni di uranio in una direzione senza contemporaneamente ridurre quelle dirette altrove. Sempre ammesso che, anche qualora il leader del regime kazaco Tokayev desse il suo via libera a maggiori esportazioni verso l’Europa, il Cremlino non decidesse di storcere il naso e far leva sulla grande influenza di cui ancora dispone in Asia Centrale per ostacolare il progetto. Dopo che l’invasione dell’Ucraina ha cambiato per sempre il settore del gas naturale a livello internazionale, il colpo di stato in Niger potrebbe avere gli stessi effetti su quello, altrettanto rilevante, dell’uranio.