Ambiente & Veleni

Incendi in Canada, il peggio deve ancora venire: la politica ambientale di Trudeau è schizofrenica

di Pier Luigi Roi

A fine luglio, 4908 incendi (estinti o attivi) avevano già incenerito oltre 100 mila chilometri quadrati, circa un terzo della superficie italiana, secondo quanto riporta il sito del Canadian Interagency Forest Fire Centre. Dei quasi mille incendi ancora attivi, oltre 600 sono da considerare “fuori controllo”.

Voli aerei cancellati, vigili del fuoco allo stremo (due i vigili periti) e milioni di persone messe in stato di estrema allerta a causa dell’inquinamento che ha reso l’aria irrespirabile. Questo disastro ambientale ha investito una vasta area che va dal nord-est atlantico sino all’Alabama, giungendo a giugno in Europa.

Oltre ai vigili del fuoco, ad essere in prima linea sono le comunità dei nativi: 106 incendi hanno minacciato 93 comunità delle First Nations, 63 di queste sono state fatte evacuare e i 25 mila abitanti sono ora senza abitazione. In Canada solo il 5% della popolazione si identifica come First Nation, Metis o Inuit, ma ben il 42% del totale complessivo delle evacuazioni hanno colpito comunità di nativi.

Per i nativi, in termini statistici, la possibilità di morire a causa di incendi è dieci volte superiore che nel resto della popolazione. “Il Canada, e neppure gli Stati Uniti, hanno abbastanza risorse per far fronte agli incendi”, dice Daniel Perrakis, della Canadian Forest Service della Columbia Britannica, “la foresta boreale è sempre stata colpita da violenti incendi ma ora il cambiamento climatico sta intensificando e aggravando la situazione: la stagione degli incendi inizia molto prima (questo anno in marzo) e le foreste sono più vulnerabili a causa dalla prolungata siccità“.

Il governo canadese ha promesso aiuti e assistenza alle popolazioni colpite e ha avviato iniziative tendenti a cooperare con le First Nations per un programma di prevenzione e monitoraggio, mentre a livello nazionale tenta di dare risposte al global warming, ora diventato global boiling.

Dal primo di luglio è entrata in vigore la carbon-tax (l’imposta su benzina e gasolio da trasporto e riscaldamento) e i canadesi in media pagheranno circa sei-nove centesimi di euro in più al litro. La decisione, politicamente controversa, potrebbe irritare elettori e imprenditori, in un periodo economico post-Covid contrassegnato da inflazione e aumenti dei tassi di interessi bancari.

La politica di Trudeau è definita dagli ecologisti schizofrenica: il Canada è infatti fra le nazioni del G20 (2018-2020) ad erogare il più alto livello di sussidi per l’industria petrolifera. Sono 13 le aziende del settore che operano in Canada e il governo ha approvato nuovi stanziamenti per il Trans Mountain Pipeline, l’espansione che triplica la capacità di un oleodotto di mille chilometri che collega l’Alberta alla costa dell’oceano Pacifico, nella Columbia Britannica. L’impianto dovrebbe essere inaugurato nel 2024 e la capacità passerà dagli attuali 300 mila a 900 mila barili al giorno. Il costo preventivato nel 2018 era di 7,4 miliardi, poi lievitato ad oltre 30 miliardi.

Dopo questo luglio infernale, secondo gli esperti, il peggio deve ancora venire: “Quando analizziamo i dati canadesi del global warming”, dice Gordon Mc Bean della Western University, “notiamo che il Canada si sta surriscaldando due volte più velocemente del resto del globo e, secondo le proiezioni, entro la fine del secolo le temperature aumenteranno mediamente di cinque gradi centigradi, provocando disastri ambientali di inimmaginabili proporzioni”.

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