Tre anni dopo la catastrofica esplosione al porto di Beirut, che uccise almeno 235 persone e devastò oltre metà della capitale libanese, le persone sopravvissute, le famiglie delle vittime e numerosi gruppi della società civile locale – appoggiati dalle organizzazioni internazionali per i diritti umani, tra cui Amnesty International – si sono nuovamente rivolti al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite per chiedere una commissione internazionale d’inchiesta che accerti la dinamica dell’esplosione e individui i responsabili.
È chiaro da tempo che le autorità libanesi non hanno la minima intenzione di collaborare alla ricerca della verità e della giustizia: in questi tre anni hanno usato ogni mezzo a loro disposizione per proteggere se stesse e perpetuare la cultura dell’impunità.
Tutto è fermo dalla fine del 2021 a causa di una serie di azioni legali promosse da esponenti politici coinvolti nelle indagini del giudice Tarek Bitar. Quando il giudice, nel gennaio di quest’anno, ha provato a riprenderle è stato oggetto di nuovi provvedimenti da parte del procuratore Ghassan Oweidat, competente per le indagini, che gli ha persino imposto un divieto di viaggio. L’Ordine degli avvocati e l’Associazione dei giudici hanno denunciato l’illegalità delle mosse del procuratore, ma da allora non è più accaduto nulla.
A marzo l’Australia, a nome di 38 Stati membri del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, aveva espresso pubblicamente preoccupazione “sulle sistematiche interferenze e intimidazioni e sullo stallo politico” che pregiudicano lo svolgimento delle indagini.