Ascolti, io ci saranno cose in cui non rispondo, cose in cui rispondo e spiegherò il motivo per cui rispondo, e cose che spiegherò il motivo per cui non voglio rispondere”, mentre “se mento ed è evidente che mento, lasciamela passare, significa che io non le voglio rispondere”. Sono queste le regole del gioco seguite da Matteo Messina Denaro nell’interrogatorio in cui risponde alle domande dei magistrati di Palermo. Il procuratore capo Maurizio De Lucia e l’aggiunto Paolo Guido trascorrono un’ora e 40 minuti davanti a quello che era l’ultimo grande latitante della storia di Cosa nostra. Messina Denaro non è un collaboratore e non ha alcuna intenzione di diventarlo. Eppure riempie 70 pagine di verbale con quelle che lui definisce le “sue verità”. Elementi al vaglio degli investigatori visto che numerosi passaggi del documento sono oscurati da “omissis”.

“Cosa nostra la conosco dai giornali” – L’interrogatorio, il primo del boss delle stragi, risale al 13 febbraio, meno di un mese dopo il clamoroso arresto dei carabinieri del Ros: lo beccano davanti alla clinica La Maddalena, nel capoluogo siciliano, dove il capomafia è in cura per un tumore. “Voi mi avete preso per la malattia, senza la malattia non mi prendevate“, si vanta il boss a un certo punto. Provocando la replica di De Lucia. “Intanto l’abbiamo presa, adesso non ci si metta pure lei…che tutta Italia sta dicendo…“, dice il procuratore capo, che si riferisce alle polemiche nate dopo l’arresto, profetizzato con mesi d’anticipo da Salvatore Baiardo, il favoreggiatore dei fratelli Graviano intervistato da Massimo Giletti. Il conduttore non attira le simpatie del boss di Castelvetrano: “Giletti l’altra settimana ha detto che io ho partecipato all omicidio di Pino Puglisi, ieri sera ha detto a lei cosa deve fare lei quindi…”. Non è l’unico passaggio in cui Messina Denaro sostiene quasi di essere perseguitato, come fa per esempio per il caso dell’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo: “Mi possono mettere in croce nella vita mi sta pure bene non ho niente da recriminare a nessuno ma io il bambino non l’ho ucciso e mi dà fastidio sta situazione“. Una strana affermazione per un capomafia che non ha alcuna intenzione di pentirsi. E che anzi nega addirittura di essere affiliato a Cosa nostra, come hanno fatto tanti boss prima di lui. La domanda il procuratore De Lucia gliela pone subito: Lei è un uomo d’onore? – No, io mi sento uomo d’onore, nel senso di altri… non come mafioso – Quindi lei non è stato formalmente “combinato” in Cosa Nostra? – No no, completamente, per così dire – Ma conosce Cosa nostra? – Dai giornali, certo – E lei non ha mai avuto a che fare con Cosa Nostra? – Non lo so, magari ci facevo qualche affare e non sapevo che era Cosa Nostra, però… – Vabé, reati ne ha mai commessi lei? – No, di quelli che mi accusano no – Quindi, stragi, omicidi, lei non c’entra niente? – No, nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare, alla fin fine, no? – Quindi lei si reputa innocente: ho compreso bene? – No, non voglio dire questo, sarebbe assurdo”. Il procuratore pone le stesse domande sul padre, don Ciccio Messina Denaro: “Suo padre era uomo d’onore?”. “Non gli feci mai questa domanda”, risponde il boss. Che però sottolinea: “Mi auguro che lo fosse stato, quantomeno la sua vita avrebbe avuto un senso”. Così inizia il dialogo tra i magistrati e il boss, con quest’ultimo che si muove come una biscia tra le parole: dice e non dice, regala mezze ammissioni e personalissime ricostruzioni. Ogni tanto Paolo Guido, che gli ha dato la caccia da anni, lo interrompe: “I reati del singolo abitante di Campobello li accerteremo con le indagini, non abbiamo bisogno delle sue dichiarazioni. Quello che a noi ci interessa è ricostruire i fatti che sono accaduti in 30 anni, a noi interessano quelli”. Messina Denaro lo sa bene, ma non intende certo raccontare i suoi segreti.

Provenzano e la co-latitanza con “i nostri sistemi” – Eppure il verbale dell’ultimo boss delle stragi è anomalo da vari punti di vista. Per esempio quando Messina Denaro ammette di aver avuto un rapporto epistolare con Bernardo Provenzano, l’ultimo capo dei corlenesi. Il pm chiede: “Ha conosciuto Bernardo Provenzano? – Dalla Tv – Lei non ha mai scritto a Bernardo Provenzano? – Sì, lettere… non l’ho mai conosciuto visivamente – Però sapeva chi era? – Certo che sapevo chi era, ci mancherebbe – E lei perché scriveva a Bernardo Provenzano? – Perché quando si fa un certo tipo di vita, poi arrivato ad un dato momento ci dobbiamo incontrare, perché io latitante accusato di mafia, lui latitante accusato di mafia, dove si va? – Ma lei se lo ricorda quello che scriveva a Bernardo Provenzano? – Sì, pressappoco sì: io chiedevo favori a lui, se me li poteva fare e lui chiedeva favori a me, se glieli potevo fare. – Ecco, ma tra i favori che lei chiedeva c’erano importanti affari… – Omicidi non ce n’erano, questo è sicuro – Omicidi non ce n’erano, però questioni di soldi ce n’erano tante – Sì, ma là, veda, su di me è da 30 anni che travisano, ma non che travisano, voglio dire, sempre volutamente, anche perché poi diventava: tutto quello che c’era lo gestivo io, lo facevo io… cercavo di fare riavere dei soldi ad un amico mio, paesano mio, Giuseppe Grigoli, ché glieli avevano rubati. Siccome io a questo di Ribera non lo conoscevo, mi sono rivolto a lui… – A lui chi? – Provenzano – E come ha fatto a rivolgersi a Provenzano? – Perché sono un latitante e lui era pure latitante e quindi i canali li conosciamo, non c’è bisogno di essere affiliato. Se io cerco una persona normale, mi viene difficile, ma se cerco un latitante come me, ci troviamo. Abbiamo i nostri sistemi” – Ed in questi sistemi c’aveva una forma di comunicazione dei cosiddetti pizzini? – Bravissimo – E lei come si firmava? – In quel contesto “Alessio” – E perché si firmava Alessio? – Per non mettere il mio nome. Posso capire che è una stupidata – Perché ha scelto Alessio come nome? – No, non c’è una… Su Svetonio no, su Svetonio fu una cosa mia, che lo chiamai così, ma Alessio… potevo scrivere pure Fabrizio”. Questo è un passaggio fondamentale: i pm non hanno chiesto nulla della corrispondenza con Antonio Vaccarino: è Messina Denaro a volerne parlare.

La lettera di minaccia per Vaccarino – Massone, ex sindaco di Castelvetrano, vecchio amico di don Ciccio Messina Denaro, Vaccarino è noto perchè intrattenne uno scambio epistolare col latitante, su mandato del Sisde. Il suo nome de plume era proprio Svetonio, mentre Messina Denaro si firmava Alessio. Per molto tempo l’autenticità delle lettere del latitante è stata messa in dubbio. Ma ora è proprio ‘u Siccu a confermarlo: ha scritto a Vaccarino che conosceva fin “da bambino. Che Vaccarino – forse voi non lo sapete – non è castelvetranese, è corleonese… arrivò da ragazzo a Castelvetrano. Però siccome eravamo… lui mi conosceva, che ero così, io mi ricordo che lui parlava con mio padre ed io da bambino e lui mi accarezzava i capelli, cose, cioè, c’era un rapporto, diciamo, familiare”. “Perché lo chiamava Svetonio?”, chiede il procuratore di Palermo: “Perché io sono appassionato di storia antica. Ma era pure… dentro di me facevo un complimento, secondo me, però non… cioè non c’era un qualcosa, perché Svetonio, no, era che io sono appassionato dell’antica storia, da Roma a salire. Poi c’è un’altra cosa: mio padre era un mercante d’arte, quindi io… dove ci sono io, c’è Selinunte, mio padre non è che andava a scavare, però a Selinunte, a quell’epoca, c’erano mille persone e tutte e mille, pure le donne, scavavano di notte. Quelle che non scavavano di notte, scavavano di giorno, con la Sovrintendenza dello Stato, però cosa facevano in più?”. A questo punto U Siccu racconta di come col padre abbiano trafugato reperti archeologici, maneggiando milioni. Per poi tornare a parlare dell’ultima lettera a Vaccarino, di “minaccia, ha detto bene”, risponde all’aggiunto, Guido, e continua: “Quella lettera ha avuto un senso per me di farlo stare sempre con la paura perché io non gli volevo fare niente perché mi faceva schifo come uomo non… e come mentalità mia perché lui si profittò della nostra amicizia per tradirmi, poi per soldi…Prima lo volevo intimorire, non nel senso ‘Se non fai questo’, ‘Tu mi hai fatto questo, ora te la faccio pagare’ quindi questo doveva avere comunque paura”. Un tradimento, quello che Messina Denaro avverte da parte di Vaccarino che lui aveva scoperto ben prima che emergesse tramite Provenzano, grazie a un sistema di messaggi inoltrati a un gruppo ristretto, tra familiari e amici, ma poi sono “arrivati i Carabinieri il Ros… e io non credo alle casualità”. Così restringe sempre più il cerchio dei messaggi a capisce che Vaccarino ha tradito, questo racconta lui: “Ma se l’è spiegato perché Vaccarino ad un certo punto l’ha voluta in qualche modo diciamo tradire?”, chiede Guido. “Sì, sì, per soldi. Lui non è che l’aveva con me lui lo fece per soldi però era sicuro di non essere mai scoperto io invece l’avevo scoperto…”. Quindi Messina Denaro sostiene davanti ai magistrati che avesse chiaro che Vaccarino fosse “pilotato” dai Ros: “I Ros pilotano a te e pilotano anche i discorsi, ora comincio io a pilotare te e ai Ros, li faccio impazzire, cominciavo a dare notizie per esempio fasulle che non esistevano. – Omissis – Continuo lo volevo fare impazzire di cominciare a dare notizie però di farlo impazzire vero tipo di la qualsiasi in Canada America cominciavo a mettere non ci fu il tempo perché arrestarono a Provenzano”.

Un boss che perdona: “Io non l’ho ucciso e nemmeno l’ho fatto uccidere” – A questo punto da Vaccarino le mire del boss si spostano su Francesco Geraci, il gioielliere suo amico d’infanzia poi diventato collaboratore di giustizia. Malato pure lui di tumore, Geraci muore pochi giorni prima dell’interrogatorio di Messina Denaro. Il boss ancora non lo sa, ma rivendica di non aver fatto nulla per ucciderlo nonostante fosse a conoscenza dell’indirizzo bolognese – in teoria segreto – dove abitava il pentito: “Io ho sempre saputo dov’era a Bologna via Enrico Panzacchi 14 ed aveva, una gioielleria sempre a Bologna in via XX settembre nel centro storico”. I pm s’insospettiscono: “Come sapeva che abitava lì a Bologna?”. Messina Denaro abbozza: “Tramite strade mie“. L’attenzione del pm Guido è massima: “E quali erano queste strade sue?”. “Lei mi vuole portare a dire che era qualcuno dello Stato…“, risponde il campomafia. “Allora – aggiunge – le strade che lo hanno detto a me ovviamente non ve lo posso dire perché significa che usciamo da qua ed andate ad arrestare persone ed io non le faccio queste cose“. Poi rivendica: “Io non l’ho ucciso e nemmeno l’ho fatto uccidere… allora per rispondere in un altro modo a quello che ha detto lei all’inizio, non a quello che ha detto alla domanda io non faccio parte di niente io sono me stesso ma devo essere un criminale Mi definisco un criminale onesto”. Un ossimoro, gli fa notare De Lucia. Ma sa lui così un ossimoro? “La gelida fiamma”, risponde pronto il boss, citando l’esempio tipico che si fa sui libri di scuola. Geraci per Messina Denaro non era però solo un traditore ma anche un “ladro… lui senza di me sarebbe stato un morto di fame invece era miliardario ma va bene così. Ma quando tu se sei uomo – tra virgolette che non lo era – ti fai pentito dai tutte le colpe a me fai passare un anno due anni tre anni e dici ai tuoi familiari ‘Prendete la parte che aveva questo signore con noi e glieli fate avere alla famiglia’ cosa che non accadde mai quindi questa è disonestà secondo me però”.

“Conosco tutte le telecamere di Campobello”- “Ma lei dove si trovava all’epoca quando mandava queste lettere?”, chiede Guido. Messina Denaro in prima battuta è vago: “Diciamo in Sicilia”. Poi il procuratore aggiunto lo incalza e ammette: “A Palermo”. Guido però insiste, chiedendo se per caso il latitante non fosse nel “Belice“, cioè la zona del Trapanese colpita dal terremoto nel 1968. Il magistrato lo pronuncia come tutti, con l’accento sulla “e”. Ma Belìce si dovrebbe pronunciare con l’accento sulla “i”. Messina Denaro, già noto per le sue rivendicazioni quasi autonomistiche, fa trasparire il suo disappunto: “Lei è calabrese?”, chiede a Guido. Che risponde affermativamente: “Allora mi fa una cortesia? Belìce“, continua il boss. Il pm risponde: “Ha ragione”. E Messina Denaro regala anche un appunto storico: “Un giornalista lo disse così nel ’68 e rovinò sta situazione“. L’interrogatorio va avanti: “Lei ha avuto amicizie rapporti con diciamo appartenenti alle istituzioni chiamiamole così a parte la vicenda Vaccarino? – chiede il procuratore aggiunto. “No, completamente”, risponde l’ex latitante. Che continua: “Io, ascolti però, non vorrei essere frainteso, ero libero ed a me mi chiamavano ogni 3×2 per interrogarmi sempre però mi chiamava sempre…”. A questo punto il verbale dell’interrogatorio presenta una pagina e mezzo di omissis. Mentre dà alcune indicazioni su quello che, da quanto ha sentito ai telegiornali, non è stato ritrovato nel covo: “Ovvero poi c’era un sacchetto di camoscio che c’erano dei proiettili questo dove è stata trovata la pistola. Di fronte c’erano due orologi un Rolex, Submariner quello verdone 10 chiamano Hulk, ed un Bulgari in oro con modello Diagono con cinturino cammello. Poi c’erano dei soldi, 5 mila euro, nella stanza della palestra in un cuscino di una sedia. E poi nella stanza dove dormivo c’era la scrivania quindi c’erano lettere cose appunti vari cose importanti cose meno importanti e cose irrisorie Per esempio c’era un libro che stavo leggendo ‘I figli venuti male’ e come segnalibro c’era messo uno scontrino di un negozio, per esempio, ma non che avevo conservato lo scontrino”. Mentre nel covo è stato trovavo il terzo volume di un diario in cui scriveva alla figlia, ma non i primi due che sono “in altri luoghi”. Altri covi, non ancora individuati. Del periodo di latitanza a Palermo, d’altronde, è ancora tutto da scoprire. Ma poco si sa anche degli altri covi che il boss aveva a Campobello di Mazara. “Tutte le telecamere di Campobello e Castelvetrano le so, si vanta a un certo punto Messina Denaro. Come fa a sapere dove sono le telecamere piazzate dagli inquirenti? “Primo perché ho l’aggeggio che le cercava che non l’avete trovato e poi perché le riconosco“. “E dove lo ha lasciato sto aggeggio?”, chiedono i pm. “In un altro posto“, nicchia il boss. Che poi sostiene di aver avuto anche un altro sistema: “Queste telecamere – dice – quando le piazzavano perchè all’inizio quando iniziarono erano tutte di notte poi anche di giorno c’era un segnale il Maresciallo dei Ros Ivati c’era sempre lui appena si vedeva Ivati con due tre fermi in un angolo già stavano mettendo una telecamera anche se ancora non avevano messo mano“.

La difesa dei medici che lo hanno curato –No le spiego il selfie con il medico lo sa com’è nato? Perché poi uno deve pagare dazio…”, spiega a un certo punto Messina Denaro, riferendosi alla foto che apparve sui media poco dopo il suo arresto. Sorridente con il medico de La Maddalena, il selfie col boss aveva fatto molto discutere, diventando virale sul web: “Lui è stato uno di quelli che mi operò, il primo aiuto al fegato io ci andavo ogni mese perché, lui mi doveva visitare la ferita me la curava lui, perché é una ferita abbastanza pesante. Ad un tratto mi alzo ci salutiamo perché avevamo un rapporto, ci davamo pure del tu, abbracci, bacio, eh sto per girarmi e mi fa così ‘Ce to facciamo un selfie assieme?’ che dico no cioè…”. Ma sono tutti ignari. Nella lunga trafila medica seguita dal boss dalla scoperta del tumore, nessuno è al corrente della sua identità, meno che mai – sostiene lui – Alfonso Tumbarello, il medico di base che ha firmato 137 tra richieste di visite specialistiche, interventi chirurgici e ricette di farmaci. Il medico di Campobello di Mazara, vicino politicamente a Vaccarino, è stato arrestato lo scorso 7 febbraio, scarcerato e ai domiciliari dal 15 luglio, è proprio nella richiesta della procura di chiusura delle indagini a suo carico che è stato depositato l’interrogatorio di Messina Denaro. Il capomafia ci tiene a scagionare Tumbarello: “Questo non sa niente, è stato arrestato, questo non sa niente e le spiego come sono andate le cose. Allora io a questo Tumbarello Alfonso non lo conosco… però se lo incontravo in strada a Campobello sapevo che era lui, dove aveva lo studio, la macchina che aveva, bene o male il paese era piccolo…lui è stato preso, purtroppo per lui, in giro. Perché io non mi sarei mai rivolto a lui perché era intimissimo con Vaccarino cioè per me era un suicidio andare dal Tumbarello e dirgli ‘Sai io sono il Tizio’ perché glielo dovevo dire perché lui nemmeno mi conosceva, ‘io sono il Tizio, mi fai questi favori’, completamente, non esisteva nemmeno la contemplavo una cosa del genere… Se il Tumbarello avesse saputo di me, c’era bisogno di una terza persona che era il cugino?”.

Le tappe della malattia e l’autodiagnosi – Una lunga difesa del medico di Campobello, per poi ripercorrere tutti i momenti della sua malattia, facendo attenzione a scagionare tutti i medici che lo hanno avuto in cura. Un’occlusione intestinale – esattamente quella per cui è stato operato martedì – gli fa scoprire il tumore. Fece la colonscopia il 3 novembre a Marsala, da un medico di cui “so solo il cognome, Bavetta”, poi scopre che a Mazara del Valloc’è uno bravo, Giacomo D’Urso” che lo opera d’urgenza. Nell’ospedale di Mazara non c’è però oncologia e l’esame istologico viene fatto in un laboratorio di Castelvetrano. Poi la tac fa emergere le metastasi e si sposta a La Maddalena dove verrà operato per quelle. Nella clinica palermitana avrà bisogno di segnalare un contatto telefonico, verrà, infatti, curato anche a casa, telefonicamente, ed è costretto a farsi un cellulare. Emerge così dalla latitanza, interrompendo l’astinenza dalla tecnologia, sapendo che lo avrebbe potuto fregare. Ma le speranze sono poche: “Tanto io non è che ho speranze sempre morto sono perché non sono più operabile, penso, loro dicono massimo ancora due anni però, non ci arrivo a due perché mi sento male, lo capisco”.

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