Oltre tre anni fa ho provato a raccontare il Reddito di Cittadinanza dal punto di vista di un volontario di un centro d’ascolto Caritas; una lettura potrebbe interessare anche oggi chi ragiona per pregiudizi avvolti nell’ignoranza e anche chi, avendo vissuto sempre di politica, non ha l’abitudine di confrontarsi con la dura realtà della vita delle persone. Il mio obiettivo era quello di rappresentare i cambiamenti intervenuti nella platea dei “clienti” del centro d’ascolto con l’istituzione di quella misura. Dunque, nessuna pretesa di segnalare i punti di debolezza e nessun pregiudizio ideologico intorno al tema del fannullonismo, ai tempi agitato dalla destra e dal Pd per avversare la misura: questi ultimi, incuranti della sofferenza che andava crescendo nella società, rincorrevano altri interessi. Semmai conservavo un po’ di scetticismo per il collegamento fra il RdC (assistenza) e il lavoro (sviluppo economico e sociale).

Classificare la disperazione e le difficoltà delle persone per decidere chi sì e chi no è cosa da non fare mai, pena la svendita della dignità e dell’umanità di chi si cimenta, però l’ondata di livore nei confronti dei percettori suscitata ad arte dal melonismo con aggregati e servitori qualche considerazione nel merito la richiede proprio. Proviamo:

1) Una quota di percettori – oggi definiti inoccupabili, secondo la terminologia classificatoria governativa – non è in condizioni di cercarsi, trovare e mantenere un lavoro. Esiste da sempre una parte della popolazione che si trova in questo stato e di cui si sono occupati i servizi sociali. Dagli anni ’70 in poi, con le risorse pubbliche a disposizione, la tipologia e il numero degli inoccupabili, l’impatto è stato assorbito attraverso il cumulo dei benefit (casa popolare + utenze sociali + sussidi + …). In questo contesto non va dimenticato il valore delle pensioni di invalidità, concesse generosamente specie nelle zone del paese a maggiore tassi di disoccupazione, una specie di ammortizzatore sociale senza dirlo. Nel nuovo millennio le risorse locali per queste politiche sono diminuite drasticamente, poi l’aumento delle diseguaglianze e della complessità della società hanno fatto il resto. Dunque i soldi non bastano per tutti, così come gli addetti, perciò il tampone dei servizi sociali non riesce a tenere a bada il flusso. L’istituzione del Reddito di Cittadinanza ha riportato il sistema dei benefit quasi completamente all’interno del mensile erogato dall’Inps. Mentre ci guadagnavano gli inoccupabili, ci guadagnavano anche i Comuni che vedevano calare la spesa sociale e, per quelli più sensibili, dirottare le risorse verso progetti non coperti dal Rdc.

2) Un’altra quota – gli occupabili, sempre secondo la classificazione corrente, il 23 degli individui e il 38,5% dei percettori del Rdc – è costituita da persone che un lavoro l’hanno avuto, magari ce l’hanno ancora e in nero. Che non hanno impedimenti di carattere fisico o psicologico, dunque che possono lavorare. Sono realtà molto diverse, dunque è difficile descrivere in modo univoco la galassia, ma possiamo stare certi che col reddito di cittadinanza hanno perso qualcuno dei benefici di cui usufruivano, come singoli o come nuclei famigliari (ad esempio l’affitto, le utenze). Ora torneranno a riversarsi anch’essi sui servizi sociali riprendendo la corsa quotidiana alla sopravvivenza, raccattando qua e là quello che riescono a spuntare dal pubblico e dal privato sociale. Fra gli occupabili ci sono anche i 50-60enni espulsi dal mercato del lavoro e mai più rientrati per sopraggiunti limiti di età. Ci sono anche soggetti a cui il RdC aveva attribuito un valore sul mercato: al di sotto del sottopagato dicevano no. Sembra incredibile che nessuno avesse nemmeno mai preso in considerazione che “mercato del lavoro” significa incontro fra domanda e offerta. Se l’offerta non è concorrenziale, o la alzi oppure non troverai chi la coglie. Ecco perché non si sente mai di occupabili che rifiutano lavori nella manifattura, dove si lavora con contratti decenti.

3) Poi ci sono gli occupati, quelli che non dovrebbero proprio stare in questo post e neanche in fila davanti alla Caritas. Loro un lavoro ce l’hanno, ma con quello che guadagnano non ce la fanno a sopravvivere. Questo è il risultato di decenni di divaricazione salariale e sociale. Con la retorica della scarsa produttività del lavoro in Italia ci si è dimenticati di spiegare che non è stata causata dal fannullonismo dei lavoratori, ma dalla scarsità di investimenti in tecnologia, in conoscenza, in formazione e in innovazione. E che si continua esattamente sulla stessa strada, godendo sui giornali perché ci sono persone che accettano lo sfruttamento pur di restare a galla.

I dati della distribuzione dei percettori del Rdc sono ancora di là da venire, il governo non sembra interessato a conoscere la platea delle sue vittime. Ancora non si sa se compariranno offerte a salari accettabili in misura necessaria a mandare al lavoro i presunti divanisti. Si sa che efficaci politiche del lavoro richiedono investimenti uniti a un’idea di futuro che indirizzi progetti e spese a creare lavoro buono e a contenere il lavoro dequalificato e sottopagato. L’idea di futuro della destra sono il ponte sullo stretto, la diga foranea di Genova, i commissari, la flat tax, i condoni, la defiscalizzazione, insomma tutto il rosario di costosissime chiacchiere e misure che, in larga parte, è stata anche l’idea di futuro del centrosinistra. Per questo ciò che sta accadendo intorno al Pnrr è ancora più offensivo: Conte, che ha fatto bene il suo mestiere, ha ottenuto risorse in misura superiore alle aspettative più rosee. L’operato del governo Meloni sta producendo un gigantesco spreco di risorse, foraggiando la rendita dei soliti prenditori a scapito della spesa per sviluppo. Così non cambia mai niente.

Su una questione i detrattori del Rdc non hanno poi tutti i torti: almeno per i percettori occupabili qualche iniziativa i comuni avrebbero potuto metterla in campo. Con l’impegno dei sindaci e qualche finanziamento in passato sono stati istituiti i lavori socialmente utili et similia per collegare l’erogazione di sussidi all’attività di lavoro assistito. Qualche sindaco lo fa anche adesso, ma i più si sono ben guardati dal prendersi una rogna simile. Meglio pontificare e deplorare il divanismo, occupati ad aumentarsi lo stipendio sbandierando le grandi responsabilità a cui sono sottoposti.

Meloni oggi combatte contro i poveri, domani lo farà col ceto medio finalmente ridotto in povertà. Per questo è sperabile una grande mobilitazione nell’autunno.

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