Agosto 2023: la premier Giorgia Meloni, in vista dell’incontro di venerdì con le opposizioni sul salario minimo, ribadisce di essere contraria alla fissazione per legge di una retribuzione oraria perché “rischierebbe di diventare un parametro sostitutivo e non aggiuntivo, con il risultato di peggiorare il salario di molti più lavoratori di quelli ai quali lo migliorerebbe”. Gennaio 2019: il deputato di Fratelli d’Italia Walter Rizzetto – oggi presidente della Commissione Lavoro della Camera – presenta un progetto di legge intitolato Istituzione del salario minimo orario nazionale. Nella premessa scrive di non concordare con “la tesi espressa da alcune organizzazioni sindacali, le quali affermano che avrebbe effetti negativi, poiché porrebbe le basi per una diminuzione dei salari nel medio termine“, ovvero quello che ora sostiene Meloni (i sindacati hanno invece cambiato idea, con l’eccezione della Cisl). Al contrario, “è un provvedimento necessario per sostenere i lavoratori più marginali e riconoscere il lavoro come strumento di dignità, in coerenza con i fondamentali princìpi della Repubblica”.
Come è noto la capacità di cambiare idea è indice di intelligenza, ma qui siamo davanti a una inversione a U plateale rispetto a una proposta che il partito della premier riteneva così valida da volerne fare una legge dello Stato. Con motivazioni esattamente identiche a quelle con cui Pd, M5s, Avs e Azione motivano il loro sostegno alla misura: “L’adozione di misure di contrasto alla piaga del lavoro sottopagato dovrebbe rappresentare un‘emergenza“, scriveva Rizzetto. “Va affrontata prioritariamente, considerando che la sua diffusione, oltre a mortificare la dignità dei lavoratori, ostacola i consumi e impedisce all’Italia di crescere e di uscire dall’attuale stato di crisi”. Che fare dunque? Non un taglio del cuneo fiscale, come adesso predica Rizzetto. Ma il salario mimino, appunto.
“Rappresenterebbe”, era convinto il coordinatore regionale di Fdi in Friuli Venezia Giulia, “un efficace strumento per garantire una maggiore equità e tutelare la posizione di debolezza del lavoratore nell’ambito del rapporto di lavoro” e la sua assenza “nel tempo ha contribuito all’aumento delle diseguaglianze e a discriminare le categorie di lavoratori che non sono tutelate dai contratti collettivi nazionali”. E la preoccupazione per il presunto conflitto tra contrattazione collettiva e minimo legale, che secondo la premier sarebbero alternativi? All’epoca non ce n’era traccia, anzi: “Dove la contrattazione è più debole, un salario minimo è indispensabile, mentre, laddove la contrattazione è ancora forte, un salario minimo può essere un valido complemento“. Per questo il deputato meloniano ipotizzava che il minimo dovesse applicarsi “a tutte le categorie di lavoratori e di lavoratrici per i quali la retribuzione minima non sia individuata dai contratti collettivi nazionali di lavoro (CCNL)” ma anche nei casi in cui “tali contratti stabiliscano un corrispettivo minimo orario inferiore“. Proprio come previsto dal testo depositato dalle opposizioni, che puntano a fissare il minimo a 9 euro lordi all’ora.
L’unica differenza è che Rizzetto, quando al governo c’era Giuseppe Conte, immaginava di affidare la fissazione della cifra a una Commissione nominata dai presidenti delle Camere. I cinque componenti avrebbero dovuto comunque individuare un livello non inferiore al 50% della retribuzione media e adeguarlo poi in base a un fattore di proporzionalità regionale, un indicatore della produttività del lavoro e il tasso di occupazione regionale. Ciliegina sulla torta, i datori di lavoro che avessero violato l’obbligo di applicare il minimo legale avrebbero dovuto, secondo l’esponente di Fdi, essere sanzionati con una multa da 60 a 120mila euro. In caso di violazione reiterata, sarebbe scattato pure il divieto di partecipare a gare d’appalto pubbliche per tre anni.