di Savino Balzano

La decisione del Governo di sottoporre a imposizione fiscale gli extraprofitti delle banche è l’ennesimo caso utile a comprendere i controsensi e le contraddizioni di questo nostro Paese.

Prima di tutto, solo un disonesto non sottolineerebbe come la misura sia forte e significativa. Io per primo a più riprese ho sostenuto come tutto sommato l’agenda dell’esecutivo purtroppo non si discosti di molto da quella dei governi precedenti: in particolare non prova (per ora quantomeno) a scardinare la fede neoliberale europea del pareggio di bilancio e degli irrazionali vincoli economici. Insomma: i conti in ordine prima della dignità delle persone. In quelle circostanze tuttavia esprimevo una speranza: quella per la quale la strategia fosse solo iniziale, una presunta normalizzazione foriera di radicalità nazionale, diciamo così.

È presto per dire se le cose stiano in questo modo (di sicuro l’appiattimento atlantista filoamericano è ormai evidente) però questa decisione ultima è innegabilmente significativa: in Europa, in quel coacervo di avidi interessi finanziari, le banche contano eccome. Certo, penso che una manovra da circa tre miliardi sia piuttosto caritatevole, difatti i banchieri approvano o tacciono, ma qualcosa è comunque: si consideri che nel primo semestre del 2023 le banche hanno portato a casa un utile di circa 11,5 miliardi, quasi quattro miliardi e mezzo in più dell’anno precedente, registrando un incremento superiore al 62%. Peraltro, si continua a tacere su altri settori, vedi quello energetico.

Politicamente la mossa è rilevante perché Giorgia Meloni, ancora una volta, dimostra di mangiare in testa alle opposizioni: gli ha fregato sotto il naso l’ennesimo tema. E difatti che le si può obiettare? Che la misura è leggera, come sto facendo io, oppure che è tardiva, come fa qualcun altro. Ma sono critiche che vanno ponderate, con onestà, ed è necessario riconoscere come la mossa del presidente del Consiglio sia comunque redistributiva.

Quello che però secondo me più colpisce, e prima di me lo ha scritto Lidia Undiemi, è il ricorso al tema della incostituzionalità. Qualcuno, paradossalmente non le banche, piuttosto qualche zelante paggetto più realista del re, ha persino avanzato l’ipotesi di un qualche profilo di incostituzionalità. Certamente ancorandosi al primo comma dell’articolo 41 della Costituzione, chi è in malafede o provvisto di strumenti assai modesti potrebbe pensare che l’imposta sia lesiva della libertà di iniziativa economica-privata. Ovviamente si omette di citare il secondo comma dello stesso articolo che sancisce come essa (l’iniziativa economica privata) non possa mai essere “in contrasto con l’utilità sociale”. Chi intravede una contraddizione col dettato costituzionale, strumentalmente o in preda alle traveggole, ignora la vocazione sociale della nostra Carta: evincibile (ad esempio) dai principi di eguaglianza sostanziale, di progressività fiscale, di redistribuzione dall’alto verso il basso e chi più ne ha più ne metta. Non solo: finalmente qualcuno prova a condizionare la finanza, non consentendo ai capitali di muoversi arbitrariamente e su direttive palesemente inique. La malafede è chiara in chi vede la misura come un intervento illiberale e incostituzionale, ma ancora più essa è evidente (come sottolinea Undiemi) laddove gli stessi la Costituzione per trent’anni l’hanno calpestata, riservando condizioni di vita semplicemente miserrime a molti, falcidiando in primis retribuzioni e stato sociale.

L’argomento che però a mio avviso più di ogni altro dovrebbe tappare la bocca a chi ciancia di misura illiberale l’ha proposto Lando Maria Sileoni (Segretario Generale della Fabi – Federazione Autonoma Bancari Italiani) evidenziando come “gli extraprofitti sono stati ottenuti innalzando i tassi sui prestiti, a seguito degli interventi della Bce e lasciando invariati gli interessi sui depositi prossimi allo zero. Non penso che questo escamotage delle banche possa essere definito ‘attività d’impresa’ che, per sua natura, prevede un rischio che in questa circostanza non è esistito”. Insomma, per tradurre: questi extraprofitti sono il frutto di una resa di posizione, che nulla ha a che vedere con l’ingegno e l’impegno dell’imprenditore, anzi: illiberale a mio avviso è consentire che certi colossi continuino a macinare profitti su profitti a scapito della piccola e media imprenditoria che ha visto schizzare il costo del denaro e le rate di prestiti e mutui.

In definitiva: che questo sia sufficiente a consacrare la vocazione sociale dell’esecutivo mi pare davvero eccessivo (anche perché non mi sembra che la progressività fiscale, costituzionalmente orientata, sia facilmente realizzabile con la flat tax, basandosi su deduzioni e detrazioni), però questa scelta qualcosa deve pur significare e bene farebbero le opposizioni, Pd in primis, a cercare un qualche argomento serio per provare a contrastare un’azione di governo, ad oggi semplicemente indisturbata.

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