Il concetto di “criminale onesto” rappresenta una contraddizione apparente perché la sua vera complessità emerge quando si considera il contesto dei sistemi giuridici non ufficiali o non riconosciuti. Mentre nei sistemi legali tradizionali la figura del criminale onesto può sembrare un ossimoro, l’essenza di questo concetto potrebbe derivare dall’esistenza di codici morali o giuridici che operano al di fuori delle leggi ufficiali.
Molte società, sia storiche che contemporanee, hanno operato secondo codici o norme non riconosciuti o non sanzionati dai governi ufficiali che spaziano dai codici tribali ai codici d’onore delle strade urbane, fino alle leggi non riconosciute di entità statali. In questi sistemi, la figura del criminale onesto emerge come una figura rispettata, non perché operi secondo le leggi convenzionali, ma perché aderisce a un altro insieme di regole, altrettanto rigide, anche se non legali.
Prendiamo la situazione in alcune regioni che hanno vissuto golpe o tentativi di secessione – pensiamo alla Catalogna, ad esempio, o alla repubblica autoproclamata indipendente in Transnistria, che ha i suoi codici e leggi, addirittura batte moneta e non è riconosciuta a livello internazionale. Per le persone che vivono sotto tali regimi, però, queste leggi sono reali e hanno conseguenze tangibili. Nel contesto di tali sistemi giuridici alternativi o non riconosciuti, un individuo potrebbe essere visto come “onesto” da quella comunità, anche se dall’esterno potrebbe essere visto come un criminale. Questa dicotomia sottolinea la relatività del concetto di “onestà” e come esso può essere plasmato da circostanze e contesti specifici.
Questa complessa interazione tra legalità e moralità sfida le nozioni tradizionali di giustizia e diritto. Al di là delle definizioni tradizionali, pertanto, la figura del criminale onesto ci costringe a riflettere su come diverse comunità, sia geografiche che culturali, definiscono e interpretano la giustizia nel loro contesto unico. E mentre il termine “criminale onesto” potrebbe sembrare un paradosso, offre un punto di vista profondo sulla natura fluida e sfumata della legge e della moralità in contesti sociopolitici complessi. Si tratta, dunque, di un argomento profondo e complicato.
La mafia, come altre organizzazioni criminali simili, non è solo un’entità criminale ma anche un’istituzione culturale e sociale. Per molte persone che vi appartengono non si tratta solo di criminalità, ma anche di appartenenza, identità e legami familiari. Questa intricata rete di relazioni rende l’adesione a tali organizzazioni molto più profonda di una semplice attività criminale.
Quando parliamo di rieducazione o reinserimento di ex-mafiosi o membri di organizzazioni criminali simili, e pensiamo a ipotesi di accesso a benefici penitenziari, ci troviamo di fronte a sfide che vanno oltre la semplice dissociazione da attività illecite. Si tratta di affrontare e rielaborare un’intera identità e appartenenza che potrebbe essere radicata sin dall’infanzia. Questa rielaborazione richiede non solo un impegno da parte dell’individuo, ma anche un contesto e risorse adeguate utili a navigare in questo difficile e doloroso percorso. È essenziale riconoscere che la mera “rieducazione” non può essere efficace se non si affronta il profondo senso di appartenenza e identità che lega un individuo all’organizzazione.
Ecco perché è corretto parlare di pericolosità immanente in questi soggetti, perché prima delle misure di rieducazione bisogna ripensare il contesto comunitario dove il soggetto dovrebbe rientrare. La società ha un ruolo cruciale per accogliere e sostenere coloro che desiderano distaccarsi da queste organizzazioni e ricostruire le loro vite. Tuttavia, la cautela è essenziale. È fondamentale che ci siano comportamenti concreti e immediatamente leggibili di rescissione del legame con la mafia o qualsiasi organizzazione criminale simile. Questo protegge la società da possibili minacce e garantisce che l’individuo sia sinceramente impegnato nel percorso di riconoscimento del sistema giuridico legale.
Certo siamo consapevoli del ruolo fondamentale nella tutela dei diritti umani in Europa della Cedu, tuttavia, come ogni istituzione giuridica, essa opera entro parametri definiti e si basa su principi legali piuttosto che su una comprensione antropologica o sociologica profonda delle comunità coinvolte. Le sue decisioni riflettono una valutazione dei diritti umani basata sui principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo piuttosto che su una analisi della natura delle organizzazioni criminali come la mafia.
Eppure, anche se la Cedu può essere vista come un punto di equilibrio tra la necessità di proteggere i diritti individuali e quella di proteggere la società nel suo insieme, la mera giurisprudenza può non essere sempre in grado di affrontare o comprendere pienamente le insidiose sfumature delle organizzazioni criminali e il loro impatto sulla società. Questo equilibrio, pertanto, è una sfida continua. Il confronto pluridisciplinare costruttivo tra la Corte e gli esperti potrebbe offrire una via per garantire che le decisioni riflettano una visione più attenta a questioni complesse come la mafia e la sua temibile capacità lucro genetica. Ma è anche responsabilità degli Stati membri, a partire dall’Italia, assicurare che le loro politiche e pratiche siano informate e guidate da una comprensione profonda e olistica delle sfide che cercano di affrontare.