Diritti

Un altro decesso dietro le sbarre: il carcere ormai è un grande contenitore di disperazione

Arriva nelle scorse ore la notizia del decesso di una donna di 43 anni che, dal giorno del suo ingresso nel carcere di Torino lo scorso 22 luglio, aveva rifiutato di mangiare, di bere e qualsiasi altra terapia sostitutiva fino a lasciarsi morire. Pochi giorni fa Antigone aveva raccontato le due morti avvenute a pochi giorni una dall’altra nel carcere milanese di San Vittore: quella di un ragazzo di 38 anni che si è tolto la vita a pochi giorni dal suo ingresso in carcere e quella di un trentenne morto dopo aver inalato gas dal fornelletto della cella nel reparto per tossicodipendenti.

Morti alle quali il sistema si è abituato, assuefatto, che non sorprendono e non generano reazioni, non spingono a maturare impegni per evitarne di ulteriori. Morti che ci parlano di disperazione individuale, di vite ai margini alle quali si è tacitamente deciso di poter rinunciare. Chi conosce il carcere sa che esso sempre più si è trasformato in un grande contenitore di disperazione. La grande massa delle persone detenute è data dagli esclusi dal welfare, da chi non ha alcuna rete spciale di sostegno, da immigrati, tossicodipendenti, portatori di disagio paichiatrico. Corpi che si ammassano nelle mura del carcere avendo quasi rinunciato anche alla pia bugia che ci siamo detti per tanto tempo della rieducazione.

Come sempre nel mese di agosto, Antigone ha pubblicato i risultati del suo monitoraggio delle carceri a metà anno. Una fotografia delle visite effettuate dal suo Osservatorio nei primi mesi del 2023. Se il sovraffollamento ufficiale dato dai quasi 58.000 detenuti è del 112.6%, quello reale al netto delle tante sezioni inagibili e mai ristrutturate è di circa 9 punti superiore (il carcere di Arezzo, per fare un esempio, è chiuso ormai da ben 15 anni, ma i suoi posti continuano a comparire nei conteggi ufficiali del Ministero della Giustizia). E non è omogeneo sul territorio nazionale. Ci sono istituti – a Brescia, a Como, a Foggia – dove il tasso di affollamento si aggira attorno al 180%. Dove dovrebbero dormire, mangiare, respirare, venire curati, lavorare, andare a scuola cento persone se ne trovano invece centottanta a dividersi gli spazi e le risorse disponibili.

Le persone detenute di oltre 60 anni sono quasi 6.000, il 10,1% del totale dei presenti. L’età media in carcere sta rapidamente crescendo, con le complicazioni di salute che questo comporta. Soprattutto nei mesi più caldi. D’estate in carcere si vive ancor peggio che in inverno. L’aria in cella è immobile, i blindi continuano spesso a venire chiusi, le schermature alle finestre che si aggiungono alle sbarre non permettono alcun riscontro d’aria. I più fortunati possono permettersi di acquistare un piccolo ventilatore, che nei giorni più caldi è comunque inutile. Alcuni istituti hanno inoltre problemi di approvvigionamento di acqua. Ogni anno Antigone riceve segnalazioni di carceri dove per lavarsi si deve usare l’acqua confezionata.

Ma, soprattutto, in estate la vita si ferma. Si fermano le poche attività, la scuola, l’ingresso dei volontari. Ci si ritrova soli di fonte alla disperazione portata fin da fuori. A giugno, luglio e i primi giorni di agosto si contano già 15 suicidi. Eppure al 30 giugno, come ancora si legge nel rapporto di metà anno di Antigone, ben il 17,9% delle persone detenute con una condanna definitiva aveva un residuo pena inferiore a un anno. Quelle poi con un residuo pena inferiore ai tre anni erano addirittura il 51,2% dei detenuti definitivi, pari a 21.753 persone. Se si favorisse l’accesso anche solo di una parte di loro a misure alternative alla detenzione, il soraffollamento diminuirebbe e con lui la recidiva, con benefici per la sicurezza di noi tutti. E ancor più ciò accadrebbe se si smettesse di usare il carcere come ultima frontiera di un welfare ammalato.