I limiti intrinseci dei processi del ricambio, il più importante dei quali – l’accorciamento progressivo dei telomeri – è stato descritto nei post precedenti di questa serie, non sono l’unica ragione dell’invecchiamento e della morte dell’organismo. Esistono infatti molte malattie dovute a cause esterne all’organismo, la cui guarigione avviene con un recupero incompleto dell’organo o della cellula colpita. In questi casi i meccanismi del ricambio risultano solo parzialmente efficaci perché rimpiazzano la cellula danneggiata con un’altra ugualmente danneggiata, oppure del tutto inattivi. In questo post considero esempi del primo caso, nel prossimo del secondo. Ovviamente perché si verifichi un danno di questo tipo devono essere colpite strutture cellulari o di organo che siano perenni. La principale struttura cellulare perenne è il DNA; il principale organo perenne è il sistema nervoso centrale (nel linguaggio comune confondiamo spesso il sistema nervoso centrale con il cervello, che ne costituisce una parte e per semplicità io userò spesso questo termine).
I danni al DNA, che vengono poi ereditariamente trasmessi alla progenie della cellula colpita, sono di vario genere; ad esempio le mutazioni, errori causali della DNA polimerasi. Molti agenti esterni sono capaci di danneggiare il DNA, favorendo le mutazioni; paradossalmente, il più importante tra questi è l’ossigeno che respiriamo e di cui non possiamo fare a meno. L’ossigeno è un elemento molto reattivo, che può occasionalmente generare molecole come i superossidi e i perossidi che possono reagire con il DNA e danneggiarlo. La probabilità che questo avvenga è bassa, perché la cellula utilizza enzimi che convertono le forme reattive dell’ossigeno in acqua e che riparano ai danni ossidativi da esse causati; ma poiché noi utilizziamo quantità enormi di ossigeno (circa mezzo chilogrammo di gas ogni giorno!) anche gli eventi improbabili ogni tanto avvengono. Il principale danno ossidativo al DNA dovuto all’ossigeno è la trasformazione della guanina (la base azotata indicata con G in un post precedente) in ossiguanina. Quando questo accade, la DNA polimerasi sbaglia e anziché accoppiare G con C accoppia ossiG con A: si verifica una mutazione. L’accumularsi di mutazioni compromette l’informazione genetica della cellula in tutta la sua progenie, ed è particolarmente grave nelle cellule staminali; a lungo termine comporta perdita di capacità funzionale e rischio di trasformazione neoplastica. Vedremo in un post successivo che il danno ossidativo può accumularsi anche in strutture diverse dal DNA della singola cellula e coinvolgere tessuti e organi.
Il principale fattore esterno capace di indurre longevità è la restrizione dell’apporto calorico: topi iponutriti fin dalla nascita vivono più a lungo di topi che hanno libero accesso al cibo. Naturalmente non è possibile restringere l’apporto calorico fino al limite della denutrizione: insorgono altri problemi e di denutrizione si muore: l’iponutrizione è benefica soltanto se è moderata. D’altra parte anche l’ipernutrizione, che porta all’obesità, è causa di malattie specifiche; ciò che queste ricerche dimostrano è semplicemente che l’apporto calorico ottimale non è quello che gratifica l’animale, ma quello minimo necessario ad una vita attiva. Vari fattori correlano la modesta iponutrizione all’allungamento della vita ed uno di questi è certamente il minore danno ossidativo: poiché gli animali estraggono energia dal cibo grazie al consumo di ossigeno, un minore apporto calorico comporta anche un minore utilizzo di ossigeno.
Una osservazione congruente con gli studi sperimentali sulla restrizione dell’apporto calorico è la seguente: nei mammiferi esiste un rapporto tra massa corporea, longevità e fabbisogno calorico per grammo di tessuto e per minuto, tale per cui animali di maggiori dimensioni sono più longevi e hanno un minore consumo di ossigeno per grammo. Questi due effetti sono entrambi approssimativamente proporzionali alla radice cubica della massa corporea: cioè un mammifero che pesa 1 kg vive in media circa 10 volte meno a lungo di uno che pesa 1000 kg e consuma circa 10 volte più ossigeno per minuto e per grammo di peso (ovvero: l’animale che pesa 1000 kg consuma soltanto 100 volte più ossigeno, per minuto, dell’animale che pesa 1 kg).
E’ stato suggerito, in modo alquanto pittoresco, che “un grammo di tessuto utilizza in media la stessa quantità di energia prima di morire, indipendentemente dal fatto che si trovi in un topo o in un elefante”; semplicemente nel topo consuma l’energia più in fretta che nell’elefante. Il principale fattore che collega tra loro il consumo energetico e la longevità sarebbe il danno cellulare causato dai sottoprodotti dell’ossigeno, che si accumula fino a raggiungere un livello incompatibile con la sopravvivenza e le capacità replicative delle cellule. Poiché nessun animale può sopravvivere senza nutrimento e senza ossigeno, l’accumulo dei danni ossidativi può essere rallentato, ma non abolito.
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