Joshua Clover è docente di inglese e letteratura comparata all’Università della California Davis. Nel 2016 ha scritto “Riot. Strike. Riot” che dallo scorso febbraio è disponibile anche nella traduzione italiana con il titolo “Riot. Sciopero. Riot” (edizioni Meltemi). Il libro è un tentativo di elaborare una teoria di queste mobilitazioni. Un’analisi utile anche per decifrare quanto accaduto in questi mesi, dalle imponenti proteste francesi alle più contenute manifestazioni contro l’abolizione del reddito di cittadinanza, e quello che potrebbe accadere in un futuro prossimo. “Una teoria del riot (rivolta, ndr) è una teoria della crisi”, scrive Clover nell’introduzione aggiungendo che questi accadimenti possono essere compresi solo se riusciamo a decifrare il movimento storico che dà loro forma e significato. Per questo l’attenzione si sposta inevitabilmente sulla crisi del capitalismo.

Professor Clover, nel libro lei sottolinea come le rivolte contemporanee siano sempre più dirette contro lo Stato piuttosto che contro il sistema economico. Non è un controsenso visto che gli stati subiscono dinamiche economiche che si determinano a livello sovranazionale? In fondo l’unica vera speranza per lavoratori e disoccupati non sarebbe quella di un maggiore coordinamento e unità di azione tra diversi paesi?

Sono due domande complicate. Consentitemi di rispondere prima alla seconda, ammesso che questa valga come risposta: il libro non si pone lo scopo di dire alle persone quali siano le strategie che offrono loro maggiori possibilità di realizzare i loro obiettivi. Spesso però viene letto in questo modo e così si pensa di fare critiche sensate, affermando che gli scioperi sono qualcosa di positivo ed efficace mentre le rivolte non funzionano. Io non sono un avanguardista, sono solo uno studente. Descrivo le cose per come stanno. Cerco di spiegare l’attualità e di farlo in modo da aiutarci a pensare a come lotte potenzialmente liberatorie potrebbero svolgersi in futuro, comprendendo le loro basi nel passato e le loro caratteristiche nel presente. Le rivolte esistono. Sono sempre più frequenti e pressanti. Questo è fuori discussione. Il libro cerca di capire perché questo accade, non di indicare l’idea giusta; alla fine, le idee vengono dalle lotte e non il contrario.

Ma anche la contraddizione di cui parla è reale. Non sono sicuro che le rivolte che studio siano in sé contradditorie, semplicemente riflettono una contraddizione che è nella realtà. In un certo senso parliamo sempre della contraddizione che lega insieme il politico e l’economico sotto il titolo di economia politica. Questa dinamica assume una forma curiosa nel presente. Da un lato, proprio come afferma, gli Stati sono sempre più trascinati nel vortice del mercato mondiale e del capitalismo globale, con le sue spinte a produrre valore in ogni trimestre e in ogni secondo. D’altra parte, il capitalismo globale richiede sempre più il supporto del potere politico degli stati per stabilizzarsi e rendere possibile il profitto. Ciò include fenomeni che si intersecano tra loro, come regimi giuridici che legittimano il potere di classe; il controllo sul territorio, in particolare per l’estrazione di risorse; e un’rafforzamento della polizia per gestire le comunità per le quali non ci sono più “lavori fissi” che possano imporre la disciplina del salario. Sono tutte forme di violenza che, sebbene dettate da forze “economiche”, sono percepite come violenza di Stato. È inevitabile che le lotte insurrezionali si orientino contro questa violenza. Ma la magia della contraddizione risiede nella sua unità, nel fatto che quando lo stato e l’economia sono così interamente interdipendenti, quando l’uno richiede all’altro di funzionare, una rivolta contro l’uno è necessariamente una rivolta contro l’altra.

Lei scrive che il capitalismo è giunto ormai ad una fase di crisi conclamata di cui le rivolte sono una delle evidenze. Perché?

Ci sono risposte tecniche che richiederebbero pagine e pagine e che sfocerebbero in dibattiti accademici su come un’economia può o deve essere misurata. Ma c’è anche una risposta semplice: guardati intorno, stai scherzando? Scegliamo un compromesso tra queste due impostazioni: il capitalismo ha bisogno di crescere, altrimenti muore. Non può sopravvivere in uno stato stazionario. E ci sono un gran numero di indicazioni che mostrano come, a livello mondiale (non in ogni singola impresa o nazione), la crescita si sia sostanzialmente arrestata alla fine degli anni ’70. Un utile riassunto per non addetti ai lavori è contenuto nell’eccellente recente articolo di Jamie Merchant, “The Economic Consequences of Neo-Keynesianism”. Per rispondere dal punto di vista dell’Italia: da tempo la zona euro è un gioco a somma zero, con alcune nazioni che hanno la meglio su altre con una crescita complessiva carente, questo non è solo il segale ma la forma della crisi. Esprimo questo concetto spiegando che il capitalismo è la produzione della non produzione.

Genera quantità sempre maggiori di cose che non può impiegare con profitto, il che ha conseguenze pesanti per noi come esseri umani. Significa fabbriche che non possono essere gestite, capitali che non possono essere investiti, lavoratori che non possono essere impiegati e che quindi rimangono senza nulla da fare. Questa è la formula per le rivolte. Il fatto che il capitale non stia crescendo non significa però che non provi a farlo; infatti, deve muoversi sempre più velocemente solo per rimanere in equilibrio, dando vita ad una specie di frenetica stagnazione. Brucerà sempre più petrolio, estrarrà sempre più litio, produrrà sempre più rifiuti, per ritardare il collasso finale. Questo è il meccanismo fondamentale con cui la fine della crescita economica è inseparabile dall’altra grande crisi rappresentata dal disastro climatico.

Il paese europeo dove si sono verificate più proteste negli ultimi anni è la Francia. Qui assistiamo sia a rivolte che a scioperi. Prima la forte protesta contro la riforma delle pensioni, poi quelle di carattere razziale. Alcuni osservatori hanno evidenziato come le proteste siano andate ben al di là di richieste specifiche ma siano, più o meno consapevolmente, segnali più profondi di rifiuto del modello di sviluppo neoliberista, siete d’accordo?

Non penso che le lotte francesi siano un rifiuto del neoliberismo, perché non credo che il neoliberismo esista. Quantomeno non come un sistema coerente. Nella migliore delle ipotesi è un nome vago per una serie di tattiche, molto diverse da luogo a luogo e di volta in volta, adottate per cercare di sollevare la redditività sin dalla fine del boom del dopoguerra. Per usare una metafora, non possiamo definire una squadra da baseball migliaia di burocrati che tirano mazzate a caso nel buio. Se per brevi periodi e in qualche posto sono stati in grado di indirizzare delle ricchezze verso se stessi e i loro amici, non sono stati comunque capaci di stabilizzare le condizioni della povertà globale e neppure di quella occidentale. In definitiva quello che voglio dire è che, sebbene le proteste siano spesso innescate da un episodio specifico, a generarle non è il neoliberismo ma quell’instabilità di fondo del sistema che il neoliberismo, se fosse davvero esistito, si sarebbe posto l’obiettivo di controllare.

Professor Clover, non so quanto conosca la situazione italiana. In breve, il paese è governato da un esecutivo di estrema destra, la crescita economica è debole e la perdita di potere d’acquisto dei salari è la più marcata tra i paesi OCSE. Servizi primari come la sanità sono a rischio. Sono elementi che in altri Paesi hanno dato vita a grandi mobilitazioni. Eppure l’Italia resta molto “tranquilla”, gli scioperi sono settoriali e poco efficaci mentre di rivolte non c’è traccia. Hai idea del perché?

Non sono certo un esperto di questioni italiane ma mi affascina ragionare sul diverso tipo di mobilitazione e militanza di cui parla. Non credo che il conflitto sociale segua sempre immediatamente le trasformazioni sociali, che sono sempre complesse e prolungate. A volte le reazioni sembrano immediate, come le rivolte greche del 2008 che si scatenano nel mezzo della crisi economica globale. Altre volte hanno tempi più lunghi. È vero che l’Italia ha avuto un decennio tranquillo. Ma dobbiamo anche chiederci, perché il paese ha vissuto in passato i suoi anni di piombo? Non era chiaro se in Italia ci fossero condizioni particolarmente favorevoli al manifestarsi di quel fenomeno e a mantenere alta l’intensità di quelle azioni per un decennio. Eppure, seppur in modi complessi, questo è quello che è accaduto. A ben vedere, anche quel periodo fa parte della “Lunga Crisi” che ha seguito il boom economico, così come lo è il periodo relativamente tranquillo che lei menziona.

Potremmo chiederci, è vero che non c’è traccia di militanza? Le rivolte hanno molta visibilità e richiamano attenzione poiché sono “spettacolari”. Ma la categoria fondamentale che analizzo nel libro è quella delle “lotte di circolazione”: lotte combattute per la circolazione da chi si trova escluso da circuiti di produzione tradizionale. La rivolta ne è solo l’esempio più drammatico. La categoria è più ampia è ciò che conta per comprendere il presente. Le proteste legate ai territori (piuttosto che quelle legate a questioni di lavoro) generalmente rientrano in questa categoria; il movimento No TAV è un esempio preminente di lotta alla circolazione. L’Italia in questo senso ha svolto un ruolo significativo nell’articolazione del “repertorio dell’azione collettiva” contemporaneo.

Come mettono in guardia molti osservatori, e come accennava lei prima, le conseguenze della crisi climatica sono destinate ad accrescere notevolmente le tensioni sociali. Ci stiamo avviando verso un futuro in cui rivolte e scioperi saranno sempre più frequenti?

Le rivolte per il clima sono già iniziate. Ma penso che la vera domanda sia se ci stiamo muovendo verso un futuro in cui l’intensificazione del conflitto sociale può trasformarsi in lotta rivoluzionaria. Una vera rivoluzione, voglio dire, quella che non mette al potere un nuovo partito o un capo, ma annulla le costrizioni e i vincoli che attualmente strutturano tutte le nostre relazioni. Qualcosa che rifà le nostre vite, non i nostri leader. Questa è l’unica cosa che merita il nome di rivoluzione. Non credo sia impossibile ma è difficile che questo accada. Purtroppo quello che è certo è che se non accadrà siamo spacciati. Non esiste un percorso per la sopravvivenza all’interno del sistema capitalistico.

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