Per il suo presidente, l’ex ministro Renato Brunetta, “il salario minimo è un errore“, “mortifica la contrattazione” e “finirebbe per distruggere lo strumento che imprese e lavoratori hanno costruito per governare i processi economici e il mercato del lavoro”. Non a caso il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro (Cnel), in una recentissima memoria depositata in Parlamento, sostiene che per affrontare la questione salariale bisogna partire da “riforma fiscale“, contrattazione di secondo livello, welfare aziendale e detassazione degli aumenti. Mentre il minimo legale “rischierebbe di mettere in secondo piano gli altri istituti che i contratti regolano” (la tesi del governo). Parte con queste premesse poco rassicuranti il confronto su lavoro e redditi proposto venerdì da Giorgia Meloni alle opposizioni.

Il Cnel, l’organo costituzionale in cui siedono i rappresentanti delle parti sociali e che tiene l’archivio nazionale dei contratti collettivi, è stato indicato dalla premier come la sede ideale per arrivare entro 60 giorni – in tempo per la manovra – a una proposta di legge “condivisa” e “basata sui dati”. Ma non ha propriamente una posizione neutrale. Le idee del presidente nominato dal governo di centrodestra in aprile c’entrano fino a un certo punto: già nel 2019 l’organismo che da ultimi Renzi e il Conte 1 hanno tentato di abolire si era reso protagonista di un caso clamoroso, la censura di un capitolo del Rapporto annuale scritto dall’economista Ocse Andrea Garnero e dall’ex consigliere Cnel Claudio Lucifora e dedicato proprio al salario minimo. Garnero spiegò al Foglio che i sindacati avevano chiesto modifiche e alla RepubblicaDegliStagisti che il solo fatto di dar conto del dibattito “veniva visto come una “benedizione” al tema”. Alla fine quella parte, insieme a un’analisi sulle pensioni, fu espunta dal tomo.

Quattro anni dopo i sindacati, con l’eccezione della Cisl e di quelli che firmano i contratti pirata, hanno cambiato idea. Il Cnel no, come dimostra il testo dell’audizione di Brunetta davanti alla commissione Lavoro della Camera che si è tenuta lo scorso 13 luglio. In teoria l’argomento erano le proposte di legge sul salario minimo depositate fino a quel momento in Parlamento. In pratica, il testo argomenta che contro il lavoro povero serve “ben altro”, come ha notato lo stesso Garnero su Twitter, e che la questione salariale “non può essere ricondotta unicamente a un dibattito sull’opportunità o meno di introdurre un salario minimo legale”. Ora: che il minimo per legge – adottato in 22 Paesi Ue su 25 – non sia una panacea è noto, visto che non risolve i problemi del part time involontario, dei contratti brevissimi e del nero. Ma la maggior parte degli economisti lo ritiene un tassello fondamentale contro la proliferazione del lavoro povero. Il Consiglio non concorda: analizzando la situazione italiana mette in dubbio gli effetti di un minimo legale perché i minimi contrattuali dei principali Ccnl “superano nella quasi totalità dei casi la soglia indicata nei ddl finora proposti”, assunto che viene però smentito dalla tabella allegata che mostra trattamenti minimi – esclusi gli istituti aggiuntivi come tredicesima e welfare – ben sotto i 9 euro l’ora.

Nel quarto capitolo della memoria, dedicato alle proposte, di salario minimo non si parla mai. Le ipotesi di intervento? Per il Cnel, che si autocandida a “soggetto facilitatore”, servono “soluzioni di medio e lungo periodo che valorizzino l’apporto degli attori delle relazioni industriali” – la ricetta che piace alla maggioranza – e affrontino il problema “a partire dalla riforma fiscale e dalla contrattazione nazionale“. Che però al momento, come è noto, non impedisce che i lavoratori coperti da ccnl firmati dai sindacati più rappresentativi abbiano paghe da fame. Né che presso l’archivio siano registrati oltre 970 contratti di cui solo 200 firmati dai confederali. Poi il documento cita “l’urgenza di rilanciare la contrattazione di secondo livello“, cioè quella aziendale, e “intervenire sul welfare aziendale” a partire da “forme di detassazione degli aumenti contrattuali”, aspetti che aiutano molto poco i 3 milioni di persone con salari sotto i 9 euro l’ora. Tra le altre suggestioni trovano spazio anche “forme di partecipazione dei lavoratori” come il profit sharing, cioè i premi in base ai profitti realizzati dall’impresa, idea cara a Giulio Tremonti che è sempre piaciuta anche all’ex collega di governo Brunetta. Il problema è che i dipendenti, soprattutto quelli a basso reddito, tendono a preferire per ovvi motivi un salario mensile sicuro a una remunerazione che arriva solo se l’azienda va bene.

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