Tra Michela Murgia e il suo medico, Fabio Calabrò, c’era un patto. Ne parla lui stesso, direttore di oncologia medica all’Istituto nazionale dei tumori del Regina Elena di Roma, a Repubblica: “Michela sarebbe stata libera di rinunciare alla cura nel momento in cui le medicine le avrebbero impedito di essere quella che era sempre stata. Io penso che quando si dà una comunicazione corretta a un paziente le si regala la libertà. Forse per questo ha detto che per lei sono stato un buon medico. Le ho garantito la libertà fino all’ultimo giorno. Ed era tutto quello che lei desiderava”.
Calabrò racconta questi 20 mesi passati insieme a Murgia, a partire da quando le diede la diagnosi di carcinoma ai reni al quarto stadio: “Ricordo che a quel colloquio era presente anche Alessandro Giammei, il ‘figlio d’anima’ di Michela. Io tentavo di edulcorare la situazione, non me la sentivo in quel momento di essere diretto. Lei però capì e mi chiese soltanto una cosa: quanto mi resta? Poi aggiunse: ‘Dottore, io voglio continuare a fare la mia vita. Se devo sottopormi a una terapia che mi piega in due e mi rende incapace di lavorare, di scrivere, ci salutiamo qui’“. Fu proprio in quell’occasione che i due strinsero il patto di cui sopra.
In questo anno e 8 mesi Murgia ha continuato a scrivere senza sosta finché ha potuto: “Nelle ultime settimane non riusciva più a muoversi, ma ha continuato a dettare pagine e pagine con una lucidità incredibile” fa sapere il medico, che ricorda la loro ultima telefonata, pochi giorni fa: “Mi ha chiamato giovedì mattina. Era molto presto, non l’aveva mai fatto a quell’ora. Era riuscita a dettare l’ultimo capitolo del libro sulla Gpa, la gestazione per altri, un lavoro al quale teneva particolarmente. Voleva che lo sapessi, che ce l’aveva fatta. ‘Dottore, ora posso andare‘, ha sussurrato. E qualche ora dopo se n’è andata”.