Roma, 15 agosto 1977: c’è caldo nella capitale, mentre il nazista Herbert Kappler è già in viaggio per raggiungere la Germania, è libero.
Fu una fuga di Stato, non c’è dubbio.
Tutta l’operazione era stata affidata all’Anello, il servizio di informazioni segretissimo che si occupava degli affari sporchi della Repubblica: se c’era qualche incombenza troppo compromettente per essere assegnata ai servizi ufficiali, intervenivano gli uomini dell’Anello. E la fuga di Kappler era assai compromettente per lo Stato.
L’ex colonnello delle SS stava scontando la sua condanna all’ergastolo per aver mandato al massacro civili innocenti, trucidati alle Fosse ardeatine dalla spietatezza dei nazifascisti: dopo una lunga detenzione nel carcere di Gaeta, nel 1977, malato di cancro, ottenne di essere ricoverato all’ospedale militare di Roma, il Celio, da cui fuggì all’alba di quel 15 agosto. Occupava una stanza al terzo piano del reparto chirurgia, a pochi passi da altre due stanze che ospitavano degenti molto particolari, due protagonisti delle trame nere, il colonnello Amos Spiazzi, il responsabile della Gladio nel nord Italia, e il capitano Salvatore Pecorella, ambedue direttamente coinvolti nel golpe Borghese.
Spiazzi era esponente di spicco della Rosa dei Venti, una diretta emanazione di un servizio segreto sovranazionale della Nato che si sovrapponeva agli organi istituzionali dello Stato e che nel 1973 aveva già architettato l’esfiltrazione di Kappler: non solo perché la Germania lo rivoleva – lì era pure esplosa la kapplermania, con i nostalgici del Fuhrer che acclamavano i gerarchi – ma perché quel ‘regalo’ sarebbe stato il loro omaggio al Ventennio (che tempi, eh? pensavamo fossero dimenticati, e invece…). Alla fine si può ben dire che i protagonisti della “Repubblica della Guerra Fredda” sono sempre gli stessi: nulla poteva cambiare in Italia, e questo status di immobilità veniva garantito da strutture segrete che reclutavano civili nei corpi delle forze di sicurezza.
Se la verità sulla fuga di Kappler fosse saltata fuori, in quel caldo scorcio di agosto del 1977, ne sarebbe andato di mezzo lo Stato. Agli uomini dell’Anello, invece, nessuno avrebbe potuto chieder conto delle proprie azioni e frequentazioni. Durante le operazioni dell’evasione gli agenti di Mario Casardi, il capo del Sim, il servizio ufficiale, seguivano con attenzione e scrupolo che tutto andasse bene. Poi, una volta scoperto il misfatto, si diede in pasto all’opinione pubblica la storiella della fidanzata Annelise, corpulenta infermiera teutonica, che per amore fa scappare il suo uomo, ficcato con forza in una valigia calata dal terzo piano della stanza del Celio. Incredibile vero? Eppure fu la verità ufficiale, scritta per anni dai giornali, dai documenti giudiziari e da quelli parlamentari. Fino a quando non si seppe dell’Anello. La fuga di Kappler fu uno dei pilastri per ricostruire quel (poco ma non troppo) che si sa delle missioni di Adalberto Titta e dei suoi agenti clandestini.
Il medico che visitò Kappler durante la sua fuga si chiama Giovanni Rodolfo Pedroni, uno stimato urologo morto solo poco tempo fa: un professionista che si mise a disposizione. Alto ed elegante, fondò uno dei primi circoli di Forza Italia nel capoluogo lombardo. Quando lo incontrai fu molto gentile e affabile, avendolo io cercato per mesi in tutti i Rotary club del Nord Italia. Era piuttosto orgoglioso di quella sua appartenenza, tutti gli uomini dell’Anello lo sono stati: del resto, l’Italia non ha mai conosciuto fascisti pentiti.