Le tasse sui superprofitti bancari decise da Giorgia Meloni, capo del governo di destra, saranno anche frutto di calcolo elettorale; tuttavia bisogna ammettere che mai il Pd e i governi di centro-sinistra si sarebbero azzardati a toccare l’establishment bancario, mentre la Giorgia nazionale, per ragioni di immagine o per necessità di cassa, ha avuto il coraggio di fare prevalere la politica sulla finanza.

Che le banche abbiano maturato superprofitti grazie all’aumento dei tassi di interesse deciso dalla Banca Centrale Europea di Christine Lagarde è assolutamente certo: i profitti bancari sono aumentati del 63% nei primi sei mesi dell’anno rispetto al semestre dell’anno precedente. Le banche non hanno incrementato le remunerazioni dei depositi dei risparmiatori ma hanno aumentato gli interessi sui prestiti: da qui i superprofitti.

Questi si trasformeranno in lauti dividendi per gli azionisti e andranno ad arricchire le grandi finanziarie, in buona parte estere, che controllano le banche italiane. Naturalmente la misura fiscale è una tantum e, subito dopo essere stata annunciata, è anche stata subito ridimensionata: il capo della Lega Matteo Salvini aveva all’inizio enfaticamente affermato che la tassa straordinaria sulle banche avrebbe portato nelle casse dello Stato circa 10 miliardi, ma il giorno dopo le regole sono state subito modificate, e ora le entrate previste sono stimate pari a circa 2 miliardi.

Un po’ poco per dare sollievo alle famiglie e alle aziende alle prese con il carovita, il caro-affitti, il caro-mutui, l’annullamento del reddito di cittadinanza, il rischio concreto di recessione e la contrazione dei prestiti bancari. Lo spread, che misura la differenza tra i rendimenti dei titoli italiani e quelli tedeschi, almeno per ora non è salito: i mercati e la big finance sanno che, al di là di qualche colpo di testa, possono sempre contare sul governo Meloni. Tuttavia è pericoloso pizzicare la potente tigre dei mercati anche solo con un ago, si rischia che ti azzanni perfino per una piccola puntura. La tigre va messa in gabbia.

Se davvero si vuole domare lo strapotere della finanza occorrono riforme strutturali e non strumenti fiscali una tantum. Il nocciolo del problema è che lo Stato dovrebbe riconquistare il potere sulla moneta che attualmente è in mano al settore privato. Come ha spiegato ufficialmente Bank of England già nel 2014, le banche commerciali creano dal nulla il 95% della moneta: le banche commerciali creano i depositi monetari quando concedono dei crediti.

Le banconote emesse dalla banca centrale e le monetine servono solo per le spese spicciole quotidiane. Per le transazioni di maggiore valore – acquisto della casa, pagamenti ai dipendenti e fornitori, ecc – utilizziamo i depositi creati dalle banche. Ovviamente le banche private emettono moneta solo per il profitto degli azionisti: la moneta dunque non è neutra, come crede la maggioranza dell’opinione pubblica.

Come spiego nel mio libro su “Il fallimento della moneta” (Fazi Editore) le banche emettono moneta (bit) a costi tendenzialmente pari a zero digitando il computer. Lo Stato garantisce la moneta delle banche concedendo la possibilità di trasformare la loro moneta privata in banconote, cioè in moneta legale. Infatti quando un soggetto riceve un prestito dalla banca può andare al bancomat e ritirare le banconote, che sono l’unica moneta legale. Il problema è che se le banche creano moneta quando fanno credito allora la moneta è immediatamente debito per la società. Ma una economia fondata sulla moneta-debito è destinata alle crisi e al fallimento.

I mercati finanziari disciplinano i bilanci degli Stati e decretano l’austerità delle nazioni: e così buona parte della spesa pubblica serva a pagare i debiti di Stato al sistema bancario. In Italia gli interessi sul debito pubblico sono pari ogni anno a circa 80 miliardi; nel nostro paese l’importo degli interessi è pari all’incirca al 4% del Pil, cioè quanto spendiamo per l’istruzione. L’unica possibilità di rompere questa spirale è che gli Stati emettano una moneta pubblica senza debito tramite la monetizzazione del debito pubblico da parte delle banche centrali.

E’ possibile che gli Stati democratici riprendano in mano la sovranità monetaria per finanziare gli ingenti investimenti indispensabili per la sanità, l’istruzione, la ricerca, le infrastrutture e l’edilizia pubblica, per le energie alternative, per pensioni dignitose e quant’altro? La prima cosa che un governo davvero riformatore dovrebbe fare è istituire una grande banca pubblica che acceda ai lauti finanziamenti della Bce e che sottoscriva gli investimenti pubblici che le banche private orientate al profitto di breve termine non amano finanziare, come per esempio quelli delle energie rinnovabili.

Una seconda riforma sostanziale a costo zero sarebbe la cancellazione dei debiti pubblici (o di parte di essi) da parte della Bce, come hanno proposto il compianto David Sassoli quando era presidente del Parlamento Europeo e economisti molto autorevoli e noti, come Thomas Piketty e Gaël Giraud.

Un quarto circa del debito pubblico dei paesi europei è infatti in pancia alla Bce che potrebbe cancellarlo senza procurare dei danni ai mercati: in tale maniera la Bce offrirebbe ai paesi europei lo spazio fiscale per effettuare gli investimenti pubblici indispensabili per la transizione energetica.

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