Passato alla storia, a ragione, come il massimo interprete di sempre in ambito rock and roll, moriva il 16 agosto 1977 Elvis Presley: cantante statunitense tra i modelli più celebri della cultura pop americana e mondiale, giunto al successo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta neanche ventenne.
Dal primo “That’s All Right”, reinterpretazione di Arthur Crudrup, Presley è salito alla ribalta caratterizzandosi da subito per la sua voce profonda e la sfacciataggine assoluta con la quale non solo teneva il palco, ma prendeva anche di petto gran parte del repertorio blues registrato nei decenni a lui precedenti.
Sotto la regia sapiente del manager (ex colonnello) Tom Parker passa alla RCA dalla Sun, pubblicando nel 1956 la hit “Heartbreak Hotel”: capace di vendere, da sola, 14 milioni di copie. Lo stesso anno prendeva il via anche la sua carriera cinematografica, che lo vide protagonista di decine di pellicole prima della chiamata alle armi – vissuta in Texas e in Germania – al ritorno dalla quale dovette fronteggiare, anche in patria, l’esplosione dei Beatles e dei Rolling Stones.
Soprannominato “The Pelvis” per via del modo che aveva di agitare il proprio bacino, considerato volgare quando non provocatorio, venne a un certo punto inquadrato dalla vita in su per sedare le critiche, pretestuose, dei benpensanti dell’epoca che nulla poterono fare, da subito, per sedare le masse sterminate di giovani impazziti per la musica e lo stile, unici, del proprio idolo.
La fine del fermo militare segnò anche l’inizio del rifugio, di Presley, presso la residenza dorata di Graceland, a Memphis, dove visse accompagnato da un’esclusiva cerchia di amici (“Memphis Mafia”), organizzando feste private e dando il la a un lento periodo di autodistruzione parzialmente interrotto dall’evento televisivo “The ’68 Comeback Special”, realizzato da NBC, che segnò il ritorno sulle scene dopo sette anni di assenza e isolamento, alla pari dello storico live tenuto l’anno successivo, a Las Vegas, divenuta la residency ufficiale dell’artista per i seguenti 84 mesi.
Sempre più piegato e corroso dagli eccessi, l’uomo lasciò progressivamente spazio al mito via via che l’abuso di farmaci, e un’alimentazione improbabile, ne alterarono l’aspetto fino a renderlo – eccezion fatta per la sua voce – praticamente irriconoscibile. Esibitosi un’ultima volta il 26 giugno del 1977, dal vivo all’Indiana’s Market Square Arena di Indianapolis, morirà a distanza di neanche due mesi consegnandosi definitivamente alla leggenda e ai fan, autori tra le altre cose di una serie di teorie complottiste che misero da subito in dubbio la sua vera scomparsa.
Ufficialmente morto per un attacco cardiaco, e ritrovato esanime dall’allora fidanzata Ginger Alden, avrebbe secondo la scrittrice Gail Brewer-Giorgio inscenato la propria fine per sfuggire al successo se non addirittura alla malavita: entrando in questo caso a far parte del programma protezione testimoni dell’FBI non mancando però, all’occasione, di palesarsi sotto mentite spoglie. Nell’inutilità di ribadire l’evidenza delle cose, a tenere assieme le voci, tante, su Presley, è ovviamente ciò che ne costituisce allo stesso modo la grandezza: la mancata accettazione, 46 anni dopo, dei limiti di un uomo divenuto prima artista e poi divinità, così presente nel quotidiano di ognuno di noi da non poterne ancora oggi comprendere, oltre al genio, la finitezza.