In realtà è lei, la vergogna, che ha provocato e poi accompagnato il colpo di stato di Niamey del 26 luglio scorso. Scomparsa da quasi dappertutto la vergogna, intesa come un ‘profondo e amaro turbamento interiore che ci assale quando ci rendiamo conto di aver agito o parlato in maniera riprovevole o disonorevole’, era introvabile.
Una scomparsa graduale, metodica e capillare, quella della vergogna, che non ha risparmiato alcun ambito, professione e circostanza. Proprio lei, dunque, è l’autrice principale del golpe militare che ha destituito il presidente. L’ha fatto anzitutto per lei, per non scomparire del tutto dalla storia e dalla cronaca quotidiana ma anche per chi, come noi, avendo agito (oppure omesso di agire) o parlato in maniera disonorevole desidera in qualche modo riscattarsi.
Tra il colpo di stato e la vergogna c’è una relazione di mutua dipendenza e complicità. Era infatti insopportabile continuare a trattare la politica in questo modo. Senza vergogna si trattava la cosa pubblica come un affare privato e la ‘transumanza’ di eletti ed elettori da un partito politico all’altro si accordava con la maggioranza del momento. La costituzione della repubblica, l’applicazione della giustizia, l’assemblea legislativa e l’esecutivo erano trattati in funzione dell’affiliazione partitica. I contratti e bandi di concorso per i vari cantieri in progetto erano affidati con estrema disinvoltura a seconda delle ricompense elettorali o di future alleanze di governo.
Senza vergogna si viveva la politica come avvenimento elettorale finalizzato all’accaparramento e alla gestione amministrativa del potere. Lo spazio politico, inteso come esperienza di dialogo e liberazione della parola su un progetto comune di società, è stato gradualmente confiscato e reso obsoleto dal nuovo e implicito ‘ministero della verità’ di regime.
La vergogna è stata altresì espunta dalla scelta delle sanzioni economiche e commerciali che, com’è noto ormai a tutti, sono deleterie per i più poveri e infliggono sofferenze a chi le perpetra e a chi le subisce. Senza vergogna vengono decise, condotte, precisate, applicate e giustificate da chi ha preso in ostaggio i popoli della sottoregione, soprattutto per assicurare e garantire a tempo indeterminato il proprio potere.
Identificare gli stati, una creazione recente e ambigua, coi popoli è una truffa o, se vogliamo, un’indebita confusione che fa il gioco di chi usa il popolo come merce di scambio per manipolare la sovranità. Peggio ancora qualora si trattasse di innescare un intervento armato per riportare nel Paese un’ipotetica democrazia costituzionale. Sotto qualunque formato esso si presenti, la stessa vergogna sarebbe tra le vittime collaterali dell’intervento. La guerra è sempre un’avventura senza ritorno, come scrisse qualcuno.
La vergogna è la ‘espressione di un disonore umiliante’ e sembra, come tale, latitante nell’ambito, sappiamo quanto importante, della creazione di condizioni di vita degradanti in una vasta porzione di popolo. Dal cibo all’educazione scolastica, dalla salute alla casa, dal lavoro alle prospettive d’avvenire per i propri figli, tutto sembra inghiottito dalla miseria quotidiana. Si sopravvive con nulla o poco più e si spera che l’indomani porti qualcosa di differente e che il Dio dei poveri si accorga di quanti gridano e tendono le mani.
In effetti è proprio l’educazione alla mendicità che, strada facendo, caratterizza le relazioni e le classi sociali. Centinaia di piccoli scolari senza scuola sono inviati ogni giorno sulle strade delle città per mendicare e per chi ha lavorato, poi, si tratta di mendicare il salario. Si mendica un posto in paradiso e nei taxi, in università e persino in carcere dove, per quanto strano possa sembrare, si paga per trovare un posto per dormire in cella.
Forse, con l’aria di scusarsi per il ritardo, la vergogna tornerà ancora a bussare alla porta della giustizia.