«Non sa comunicare», «ogni volta che parla si muove come un elefante in una cristalleria», «è arrogante e presuntuoso», sono solo alcune delle più ricorrenti accuse rivolte, anche da autorevoli opinionisti, al presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, per la sua presunta scarsa capacità di mettersi in relazione con gli stakeholders (clienti, fornitori, media, istituzioni, ecc.).
Il mantra è ritornato a seguito della lettera che il presidente ha scritto, pochi giorni fa, per chiarire la posizione della società sulla questione Spalletti-Nazionale nel cui merito giuridico-moralistico evito di esprimermi solo per ragioni di spazio. Mi piace piuttosto soffermarmi sulla narrazione retorica di De Laurentiis “cattivo comunicatore” soprattutto laddove l’analisi si è concentrata sulla frase: “…la questione nel caso di specie non è di ‘vil denaro’, bensì una questione di principio, che non riguarda solo il Calcio Napoli, ma l’intero sistema del calcio italiano, che deve spogliarsi del suo atteggiamento dilettantistico per affrontare le sfide guardando al rispetto delle regole delle imprese, delle società per azioni, del mercato”.
Eppure, stando a quanto rilevato dall’Osservatorio Social Top Manager, stiamo parlando del presidente di un’azienda di calcio più attivo e seguito su Twitter: vanta infatti 742mila follower e un’attività costante, che gli ha consentito di conservare il gradino più alto di questa speciale classifica.
I numeri sono la sconfitta dei filosofi e dei demagoghi populisti, che spesso parlano senza conoscere i principi basici di uno strumento manageriale fondamentale per la cassetta degli attrezzi di ogni presidente-manager: la comunicazione. Il patron azzurro, infatti, non è il re dei social network per caso: anzi, è uno di quelli che sa come usare meglio la comunicazione.
Anzitutto lui stesso è un brand, avendo con il tempo impersonato un’entità astratta come quella di una società di calcio che, sebbene conti circa 32 milioni di tifosi nel mondo, non ha mai avuto, nell’era di Internet, una sua definita strategia relazionale. Di fatto il Napoli, in termini di rapporto con il mondo esterno, è Aurelio De Laurentiis. Nella comunicazione i social sono relazioni tra utenti e brand. I brand ascoltano continuamente gli utenti e gli utenti lo sanno, per cui un brand, per avere successo sui social, deve diventare una persona.
Ricordate quando dichiarò: «Tifosi? Vogliono lo scudetto e i grandi nomi e poi non vengono allo stadio e si fanno il “pezzotto” (riferito ai decoder pirata per guardare illegalmente le partite del Napoli, nda)»? Si trattava di una comunicazione istituzionale sulla correlazione tra l’insuccesso e l’incapacità di saper gestire le finanze di un’azienda di calcio, enunciata utilizzando un registro linguistico più intimo. Una lezione da master post-universitario per sottolineare che il brand, per umanizzarsi, deve mettersi alla pari del suo target.
Per quanto riguarda poi il “cuore” della relazione con gli utenti-tifosi, il presidente ha capito che oggi i social network sopperiscono all’autorevolezza della stampa perché basati sulla comunicazione istantanea e sui cambiamenti editoriali repentini, un loro punto di forza attraverso il quale è più facile individuare un trend topic alla sua nascita e diffonderlo per primi. I tifosi del Napoli hanno infatti imparato a seguire questa nuova forma di comunicazione 2.0: il tweet o il post del presidente arriva anche prima del comunicato ufficiale della società.
È un modo di relazionarsi sempre più vicino ai tifosi: il presidente, anche se non ama retwittare o rispondere ai tanti commenti a lui indirizzati, ha compreso che la classica comunicazione istituzionale non ha futuro e che l’attenzione dovrà essere piuttosto focalizzata sulla relazione con l’utente e non sul prodotto/servizio. Una relazione autentica e originale tra il brand (Napoli) e la community passa essenzialmente per una persona (il presidente) e poi, dopo, per un sito o un ufficio stampa.
De Laurentiis ha infatti provocato alcune trasformazioni radicali nella comunicazione e nel rapporto con la stampa e con gli organi istituzionali del calcio, divenendo riferimento di una serie di “iniziative” che sembrano provenire dal basso e trasferendo quindi un diritto/potere di parola al bacino di utenza napoletano mai avuto prima.
A livello mediatico, il Napoli è come la Corea del Nord: la stampa viene a sapere poco e soprattutto si convince che le sortite a effetto del presidente siano iniziative di uno sprovveduto, come avviene per Kim Jong-un. Invece siamo di fronte a una precisa strategia di customizzazione del brand, adottata dallo stesso presidente della società, che, facilitato dall’utilizzo del social network, ha subito metabolizzato il principio che il calcisticamente corretto, versione comunque meno convenzionale del politicamente corretto, è diventato insopportabile. Basta. La comunicazione nel calcio è governata dalla pancia dei tifosi che, come ribadito nel mio libro “A scuola da De Laurentiis” (Edizioni Ultra), rappresentano ancora un importante segmento di clientela.
Ci sono addirittura studi di psicologia sociale che affermano che la comunicazione pungente, sarcastica, sprezzante (aggettivo spesso ricorrente per De Laurentiis) sia sempre un sintomo di libertà intellettiva, di necessità di espressione, una forma culturale (sì, culturale) che trova sfogo nella provocazione e nello sberleffo, essendo questo il solo mezzo consentito per sbollire un po’ la cattiveria che cova all’interno dei cuori degli esseri umani.
A ogni modo, punzecchiare, irridere e schernire può essere divertente, ma richiede un rilevante senso del limite. Molti confondono la franchezza e la mancanza di ipocrisia, che sono dei valori corretti, con la maleducazione e il celebre «bidone della spazzatura al posto del cuore», come ebbe a definire un odiato arbitro il simpatico Buffon.
Pochi dirigenti illuminati hanno capito che occorre invece parlare al cervello istintivo (la pancia) dei tifosi che non amano il “politicamente corretto”.