Ufficialmente sono 140mila (registrati dall’Unhcr) ma i numeri reali sarebbero, secondo “Syria Al-Gad Foundation”, cinque volte tanto. Sono uomini, donne e bambini siriani che restano nel limbo: tutti richiedenti asilo ogni sei mesi. Per loro in Egitto, nonostante il Paese del presidente Abdel al Sisi li faccia entrare fin dal conflitto esploso in Siria nel 2011, non c’è certezza. Lo capiamo incontrando Taher al Najjar, responsabile Relief e Livelihood, dell’ufficio di Obour, 700mila abitanti, a 35 chilometri dal Cairo. A guidarci, fuori dalla Capitale, è Natascia Mascia, responsabile in Egitto dell’organizzazione non governativa “MAIS, movimento per l’autosviluppo, l’interscambio e la solidarietà” che da quasi vent’anni lavora a un progetto di microcredito, portato avanti nell’area rurale di Sohag, accanto alle comunità, per migliorare le condizioni socio-economiche di donne, bambini, contadini, piccoli produttori, giovani e persone forzate allo spostamento.

Attraversare la Capitale resta uno dei maggiori rischi, a causa del traffico, ma permette di entrare nel ventre di una città di diciotto milioni di abitanti (sulla carta). Basta allontanarsi di una ventina di chilometri da piazza Tahrir, simbolo della rivoluzione che ha portato alla caduta del regime di Hosni Mubarak, per capire che una delle questioni principali è la demografia: secondo i dati dell’Onu, in Egitto il numero medio di figli avuti da ciascuna donna è 3,5 e, a detta del New York Times, se la situazione non cambierà, la popolazione del paese potrebbe arrivare a 128 milioni di persone nel 2030.

I “casermoni”, gli appartamenti ad alveare, sono sterminati. L’emergenza profughi siriani sembra non avere mai fine. “Siamo qui – spiega Taher al Najjar – dal 2011 e con il perdurare della crisi siriana, l’aumento del numero di rifugiati arrivati in Egitto e l’aumento delle necessità, è stato necessario lavorare in modo istituzionale e organizzato. Abbiamo scuole, siamo in grado di dare assistenza sanitaria, burocratica e di proteggere i nostri connazionali. Il problema principale è la discriminazione. È difficile ottenere un visto, la residenza e quindi un lavoro. Banalmente anche un bambino, se non ha la residenza, non può accedere alla scuola statale nonostante l’Egitto abbia ratificato la Convenzione sui diritti dell’infanzia”.

I numeri di “Syria Al-Gad Foundation” parlano da soli: in dieci anni hanno dato aiuto a 344.421 persone, di cui 99.227 in campo sanitario e 56.292 in quello educativo. Per farci capire di cosa sta parlando ci porta a visitare una scuola che ha adottato persino il metodo “Montessori”: qui sono accolti ogni giorno 1.600 bambini di cui 300 che hanno perso il padre. Ora l’emergenza – ci racconta il direttore – sono i profughi che fuggono dal Sudan. Già nello scorso mese di maggio l’Unhcr parlava di più di 170.000 persone entrate in Egitto, dall’inizio del conflitto il 15 aprile, attraverso Qustol, un valico di frontiera. “Si stima l’arrivo – dice Taher al Najjar – di 250mila sudanesi in un Paese che già è in ginocchio”.

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