L’Italia è il paese in cui il minor numero di neolaureati trova un’occupazione dopo il ciclo di studi superiore: lavorano circa 6 su 10 contro una media europea di 8 su 10. Emerge dai dati forniti da Eurostat relativi al 2022 da cui si evince innanzitutto che, lo scorso anno, l’82% dei neolaureati dell’Unione europea di età compresa tra 20 e 34 anni aveva un’occupazione. Dal 2014 il tasso di occupazione di questo gruppo è aumentato di 7 punti percentuali, mostrando una costante tendenza al rialzo interrotta solo dalla pandemia di Covid-19. Il tasso di occupazione nel 2022 ha segnato un nuovo picco, superando il precedente massimo dell’81% raggiunto nel 2018, tasso che era rimasto invariato nel 2019. Tuttavia l’Italia si colloca all’ultimo posto con un livello di neolaureati occupati al di sotto del 65%. I più alti tassi di occupazione dei neolaureati in Lussemburgo e nei Paesi Bassi entrambi al 93%, in Germania (92%) e a Malta (91%).
Si conferma anche una differenza significativa tra generi, il tasso di occupazione dei neolaureati maschi è costantemente superiore a quello delle neolaureate. C’è però una novità: nel 2022, il divario si è ridotto a 2 punti percentuali, sul livello più basso degli ultimi 8 anni. Le disparità nei tassi di occupazione possono essere spiegate dalla natura dei campi studiati – sostiene l’istituto europeo di statistica – perché ci sono differenze nella domanda del mercato del lavoro. Le donne e gli uomini tendono a studiare campi diversi: ad esempio, una percentuale maggiore di studenti di scienze e tecnologia è di sesso maschile. Secondo l’ultimo rapporto Istat sono aumentati i laureati che hanno scelto di lavorare in altri Paesi (“una perdita che impoverisce il potenziale di crescita del Paese”): tra il 2010 ed il 2021 83.000 laureati in più se ne sono andati, rispetto a quelli che sono rientrati. Nel 2020, nonostante la pandemia, più di 18mila giovani (25-34 anni) laureati hanno lasciato il Paese. E le pensioni? Il Consiglio Nazionale dei Giovani assieme a Eures ha paventato pochi giorni fa il rischio di un ritiro dal lavoro per i più giovani a 74 anni con un assegno a poco più di 1.000 euro. La ricerca non prende in esame il titolo di studio ma punta il dito su “la crescente precarizzazione e discontinuità lavorativa, associata a retribuzioni basse e mancanza di garanzie sociali”.