Parlare oggi di Greta Thunberg significa immediatamente suscitare un immaginario fatto di discorsi sferzanti sulla crisi climatica ai potenti del mondo; di folle di ragazzi in piazza in tutto il mondo per gli scioperi globali del clima; di tweet senza sconti da un account – dove si definisce, non senza ironia, una “autistic climate justice activist Born at 375 ppm” – seguito da quasi sei milioni di persone.
Ma il 20 agosto di cinque anni nessuno sapeva chi fosse Greta Thunberg. Sconvolta dalle notizie sul riscaldamento globale, da sola, un giorno si è fatta coraggio – possiamo immaginare il suo terrore, vista anche la sua timidezza – e da sola si è seduta davanti al parlamento svedese con quello che poi è diventato il simbolo della sua battaglia, un cartello di legno bianco con la scritta “Sciopero per il clima”.
Venerdì dopo venerdì, accanto a lei hanno cominciato a scioperare altri attivisti, poi gli scioperi sono cominciati in altri paesi, infine in tutto il mondo. Nascevano i Fridays For Future, mentre Greta, viaggiando e prendendo parte a incontri in Europa e negli Stati Uniti, riusciva lentamente ad imporre il tema della crisi climatica alle agende pubbliche e politiche del mondo.
Non è stato mai facile per lei – leader non leader, schiva, priva di ogni narcisismo e autoreferenzialità, pronta a lasciare spazio ai giovani attivisti climatici dei paesi più colpiti – portare avanti un compito da lei stessa definito pesante e insopportabile. In questi cinque anni non solo è riuscita a rendere la crisi climatica un tema noto a tutti, dai giovani ai politici, di tutto il pianeta, ma ha anche indicato quella che a suo avviso è la strada per uscirne, insieme alla protesta: la scienza.
“Uniti dietro la scienza”, questo il suo motto, culminato nel suo ultimo libro, The Climate Book, dove ha raccolto sul tema della crisi climatica e su come contrastarla le voci dei più autorevoli scienziati del mondo.
Come al solito, anche su Greta Thunberg il nostro paese si è distinto per il suo provincialismo, la sua ignoranza, la sua violenza. Esattamente come Michela Murgia che in questi giorni ricordiamo con dolore, anche Greta è stata attaccata dalla destra e dai suoi giornali, e i suoi attivisti definiti “gretini”, come se ci fosse da ridere su una crisi che sta portando via pezzi di mondo – vedi, ultime, le Hawaii – e che, per restare solo al nostro paese, ha distrutto per sempre il clima mediterraneo, rendendoci ormai preda di estati sempre più insopportabili e torride.
Se dobbiamo poi guardare a questo governo e alla sua stampa, il messaggio di Greta sembra passato invano, visto il mix indecente di negazionisti, semi-negazionisti e indifferenti che siedono negli scranni più alti. Un governo i cui giornali gridano contro le presunte ricadute economiche di misure ecologiche, senza rendersi conto che se facessimo solo il conto dei danni di un anno di eventi estremi in Italia questi superano ormai i fondi per una manovra economica. Un governo che ha fatto una norma ad hoc per perseguitare gli attivisti climatici.
Per fortuna la maggioranza degli italiani, lo dice qualsiasi sondaggio, è consapevole e angosciata dalla crisi e vorrebbe interventi seri. Per fortuna, soprattutto, l’Italia conta poco sullo scacchiere globale.
Ma purtroppo proprio su questo fronte le cose non vanno meglio: le emissioni continuano a crescere, la prossima Cop28 a Dubai già si annuncia una farsa, e il mondo sembra incapace di mettere in atto quelle misure che servirebbero davvero per uscire dalla crisi, come l’eliminazione graduale ma definitiva dei combustibili fossili. Mancano classi politiche all’altezza, mancano anche visioni che indichino come uscire progressivamente da un sistema capitalistico basato sui consumi che si autoalimenta in maniera inarrestabile. Gli attivisti per il clima sono incarcerati e puniti anche nei paesi più democratici e “green” come la Germania.
Invece la stampa, la politica, l’intera cittadinanza dovrebbero mettere in campo una lotta senza quartiere contro quella che lo stesso presidente Sergio Mattarella ha definito la crisi più grande. La stessa opposizione italiana potrebbe trovarsi unita, insieme alle grandi questioni sociali, dal reddito di cittadinanza al salario minimo, proprio sul tema del contrasto alla crisi climatica, di cui sia Giuseppe Conte che Elly Schlein sono ben consapevoli.
Non sono battaglie in contrasto ma, come la stessa Greta Thunberg ha sempre sottolineato, vanno nella stessa direzione, perché non c’è lotta alla crisi climatica senza giustizia sociale e non c’è giustizia sociale senza lotta alla crisi climatica. Senza dimenticare gli enormi benefici in termini di maggior benessere, minore sofferenza e maggior lavoro che la transizione verde potrebbe portare, un aspetto che la destra non è a riuscita a capire, ma che fa fatica ad avere consensi anche a sinistra.
Sarebbe bello e fondamentale che in questa battaglia l’opposizione facesse proprie non solo le tesi degli scienziati e dei climatologi, a cui finalmente bisognerebbe dare il peso che spetta, ma anche di filosofi, storici, economisti, intellettuali in generale che stanno lavorando su come indicare una progressiva e possibilmente indolore uscita da questo sistema dei consumi, puntando su una decrescita felice o, se la si vuole chiamare altrimenti, su un racconto alternativo di ciò che ci porta felicità: amicizie, condivisione, tempo. Valori che producono zero emissioni di CO2.
Tornando a Greta: attivismo per il clima, protesta sociale e politica, valorizzazione della scienza, riflessione su un sistema capitalista e fatto di potentissime lobby che ci porta verso la distruzione, visione di un mondo alternativo a questo e più giusto per le giovani generazioni così come per i poveri del mondo.
Questo è il capitale morale che l’attivista ci ha dato e continua a darci: in altre parole, gli strumenti per vedere la crisi ma anche per uscirne.
Ora toccherebbe a noi. Ma, come dicevo, la politica ancora nicchia, la stampa è gravata dai conflitti di interesse, la cittadinanza non riesce a percepire il rischio estremo, perché spesso gravata dalla lotta per la sopravvivenza. C’è da augurarsi solo che tra cinque anni, quando saranno passati dieci anni dal primo sciopero di Greta, il mondo abbia non solo capito, ma preso decisioni radicali. Per evitare migrazioni di massa, conflitti anche bellici per le risorse, crisi delle democrazie. E soprattutto pericolosi punti di non ritorno che metterebbero in crisi la nostra stessa sopravvivenza. Come Greta ha sempre denunciato con tutta la forza possibile. Mettendoci la sua voce, i suoi sentimenti e il suo stesso corpo.