VinFast è un nome che dice poco in Occidente. Eppure la compagnia automobilistica vietnamita vale in borsa quasi il doppio di un gruppo come Stellantis. Martedì ha debuttato alla borsa di New York, sul Nasdaq, e la capitalizzazione ha raggiunto gli 85 miliardi di dollari. Nei giorni successivi il boom iniziale si è in parte ridimensionato ma il valore della società rimane tuttora a 74 miliardi, più degli storici marchi europei e americani. Sul mercato c’è appena l’1% del capitale, il resto è in mano al fondatore Pham Nhat Vuong. La casa automobilistica produce veicoli elettrici da circa 5 anni, al momento però in circolazione ce ne sono appena 20mila. Tuttavia la scelta della compagnia di abbandonare completamente la costruzione di veicoli a benzina e gasolio e concentrarsi sulle nuove motorizzazioni è piaciuta al mercato. Tesla del resto capitalizza 675 miliardi, il valore lo fanno gli utili che si attendono nel futuro più che gli asset delle aziende. VinFast ha aperto una serie di concessionari sulla costa pacifica degli Stati Uniti e da poco inaugurato una fabbrica nella Carolina del Nord. Qui è utile fare un riferimento a cosa significhi per il settore l‘Inflation Reduction Act (Ira) statunitense che, al di là del nome, è un gigantesco piano statale per attrarre investimenti in determinati ambiti economici, anche dall’estero, e contrastare l’ascesa della Cina. Tra questi, il più importante è l’auto elettrica, per cui sono stati stanziati miliardi di dollari sotto forma di incentivi ed agevolazioni fiscali a condizione che la produzione avvenga in territorio statunitense.
Nel frattempo però la Cina macina terreno. Pochi giorni fa si è saputo che nella prima metà del 2023 il paese ha soppiantato il Giappone come primo esportatore di auto al mondo. I veicoli venduti all’estero dalla Cina hanno superato i 2,3 milioni, con un incremento del 77% rispetto allo stesso periodo del 2022 e 300mila in più del Giappone. In Europa, Pechino ha venduto soprattutto vetture elettriche: 100mila in Belgio e in Gran Bretagna, 70mila in Spagna, 50mila in Italia. Il 35% delle auto elettriche importate dall’Europa proviene dalla Cina. Per il paese asiatico si è inoltre spalancato il mercato russo, dopo la ritirata delle case occidentali a causa della guerra in Ucraina. La metà delle nuove immatricolazioni russe è di auto cinesi, in questo caso anche con motorizzazione tradizionale, a gasolio o benzina. La leadership globale nel settore delle auto elettriche è uno degli obiettivi del programma “Made in China 2025”, varato dal governo di Pechino nel 2015 cui gli Stati Uniti hanno risposto principalmente con il loro, più recente, Ira. Nei giorni scorsi il fondatore e presidente di Byd (la principale casa automobilistica cinese) Wang Chuanfu, ha lanciato un appello a tutto il comparto. “Credo che sia giunto il momento per i marchi cinesi di unirsi per demolire le vecchie leggende occidentali e realizzare nuovi marchi di livello mondiale”, ha detto in un video divenuto virale e apprezzato da molti concorrenti.
E in Europa si cerca di reagire sebbene la paura suscitata dall’avanzata cinese ci sia. Come al solito gli stati dell’Unione si muovono in ordine sparso con l’occhio rivolto ai propri interessi particolari. Quindi, come per i semiconduttori, chi più ha più spende. Germania e Francia, che sono anche i paesi di riferimento dei principali produttori europei, Stellantis inclusa, hanno stanziato le risorse maggiori per attrarre nei loro confini gli stabilimenti per la realizzazione di batterie e nuove vetture. L’Italia, partita in ritardo e dove un solo marchio fa il bello e il cattivo tempo, arranca in attesa che decolli almeno il progetto di Termoli dove Mercedes, Stellantis e Total vogliono dar vita a una gigafactory. Bruxelles spinge, una parte dell’industria frena. Eppure a detta di molti esperti e dei sindacati il paese ha ancora buone carte da giocare in questa partita. Alcune produzioni di componentistica sono un’assoluta eccellenza a livello globale e la transizione all’elettrico potrebbe costituire una grande opportunità di rilancio.