E così se n’è andata anche Renata Scotto (1934-2023): in silenzio, nella sua Savona, a 89 anni. Con lei scompare uno dei simboli preclari del melodramma. In questi giorni, anche coloro che non hanno mai messo piede in teatro né ascoltato una nota di Bellini, Verdi, Puccini, l’hanno conosciuta. E anche per loro qualcosa si è spezzato.
Càpita così quando muore un grande artista: se ne hai ignorato la grandezza in vita, improvvisamente, quando manca, avverti un vuoto, comprendi che hai perso qualcosa di irripetibile e che la tua esistenza è più povera. Cerchi allora di superare la perdita attraverso la stampa, internet, i social, la TV: una sorta di riparazione nei confronti di chi non c’è più, un nutrimento sentimentale per te. Rammentare qualche dato biografico della grande cantante può essere dunque utile al recupero ‘psicologico’ di un passato svanito.
Renata Scotto debuttò giovanissima, nel 1952, nella città natale. Rischia subito: interpreta Violetta nella Traviata di Verdi, una delle parti più impervie dell’intero repertorio. Violetta richiede voce scintillante e leggera all’inizio, quando la paura del palcoscenico blocca il diaframma e la gola; impone lirismo e forza drammatica al terz’atto, quando lo sforzo profuso per due ore di fila ti ha quasi sfinita. Roba da far tremar le vene e i polsi. Certo, la giovinezza e la voglia di farcela aiuta. Ma occorre anche determinazione, preparazione tecnica, fiducia in se stessi, autocritica. Renata, evidentemente, le possedeva.
L’anno dopo, 1953, c’è una grossa svolta: si apre per lei il tempio dell’opera, La Scala. Impersonò Walter nella Wally di Catalani: non un ruolo di spicco, ma esperienza utile per misurarsi con un’arena difficile ed esigente. Il pubblico apprezza, la carriera pian piano si apre. Ma non basta, occorre anche fortuna. E questa non si fa attendere: talvolta la dea bendata cambia la vita con un sol colpo d’ala. È il 1957, la Scala porta a Edimburgo La sonnambula di Bellini, con Maria Callas, la divina. Il successo è enorme, il King’s Theatre decide di aggiungere alcune recite. Callas non può cantarle tutte, Renata Scotto la sostituisce: alla giovane cantante si aprono le porte di una carriera internazionale fulgida. La voce è bella, nitida, luminosa, il fraseggio intelligente, sensibile, accattivante. Da quel momento i teatri di mezzo mondo la richiederanno, ne apprezzeranno il vasto repertorio – dai romantici al verismo, dagli italiani ai francesi ai tedeschi –, la critica ne loderà l’intelligenza interpretativa. È ormai una stella, gira il mondo, anche se il cuore non dimentica la Scala.
Ma lei vuole anche altro. Sposa un primo violino della Scala, Lorenzo Anselmi, e ha due figli. Scelta difficile per una cantante, c’è il rischio d’interrompere la carriera, o almeno di rallentarla: ne esce indenne. Con i bimbi ancora piccoli, assieme al marito rischia di nuovo: si trasferisce negli Stati Uniti, dove nel 1965 trionfa al Metropolitan con Madama Butterfly. Seguono molti altri ingaggi, il repertorio si amplia: lei studia, studia, e ancora studia. Applicazione indefessa, raccomanda ai giovani cantanti. Che siano cauti, non si facciano abbagliare dal successo immediato, curino la voce, si esercitino, misurino attentamente il rapporto fra qualità vocali e repertorio. Insomma, non si brucino.
Ritiratasi dalle scene, tiene corsi, dà lezioni, fa divulgazione e affronta il campo minato della regìa: esordisce con Madama Butterfly al Metropolitan nel 1986, e dopo varie esperienze, qualcuna anche premiata, dal 2019 collabora col Teatro dell’Opera Giocosa di Savona.
Con Renata Scotto se ne va una donna intelligente, capace di superare le difficoltà della carriera e le sfide della vita, di non inebriarsi per la fama raggiunta. Se ne va una grandissima interprete, della quale rimangono molte registrazioni, a testimonianza di un’arte vocale straordinaria. Chi se ne vuole sincerare, ascolti i due meravigliosi duetti di Bianca e Fernando e della Norma di Vincenzo Bellini che Scotto registrò con Mirella Freni: icone sonore ineguagliate della più intima solidarietà femminile.
Se gli artisti se ne vanno, non se ne va però il melodramma. Che rimane, e rimarrà nel futuro, ma solo se sapremo tramandarlo alle nuove generazioni (lo stesso vale per tante altre forme d’arte, anche non musicali). Di questo “bene musicale” così importante siamo tenuti ad assicurare la “conservazione, fruizione, valorizzazione”: sono i concetti base del nostro Codice dei Beni culturali (2004), dal quale tuttavia la musica è paradossalmente assente. La legislazione, la politica, l’università, la scuola, la musicologia, la critica musicale, gli intellettuali in genere, i cittadini comuni, non possono sottrarsi a questo compito. Altrimenti si renderanno corresponsabili di un misfatto: il deperimento e, Dio non voglia, la scomparsa di un’arte stupefacente che da secoli, e ancor oggi, rappresenta – come è stato detto – una vera, grande “scuola dei sentimenti”.