Il Maestrale ha iniziato appena la sua corsa quando Mediterranea entra nella baia di Valona, qualche settimana fa. Nel cavo della cittadina di Orikum, in fondo al golfo, le piccole case del borgo che ricordavamo sono oggi attorniate da nuovi edifici in cemento armato. E sui moli da cui salpò 32 anni fa la nave più gremita di migranti della storia umana, oggi incontriamo molti italiani sbarcati qui.
Sono pugliesi, ma anche toscani, e non sono solo turisti. Vivono qui, si sono sposati con donne e uomini albanesi, lavorano come tassisti, ricercatori, veterinari, agenti di viaggio. Alcuni hanno anche investito nel turismo, come i proprietari del marina che ospita Mediterranea in attesa del calo di vento, italiani che hanno poi rivenduto ad altri investitori stranieri.
In Albania quasi tutti parlano bene la nostra lingua, soprattutto chi vive lungo la costa. Da Durazzo a Saranda molti hanno imparato la nostra lingua dalla televisione italiana, ma tanti altri hanno lavorato da noi tra gli anni Novanta e il primo decennio del 2000, prima di tornare a casa, perché qui stava crescendo qualcosa. Lo sguardo rivolto a noi, come meta e come modello, ha avuto un ruolo molto importante per l’Albania. Anche se a giudicare da quello che vediamo, non necessariamente positivo.
Almeno a giudicare dai molti barconi-pirata col Jolly Roger issato in testa d’albero che sfrecciano dal mattino alla sera con la musica assordante. Le prime piccole valanghe di italiani in gita hanno bisogno di stordirsi, o di proiettarsi in mare scorrendo sui grandi scivoli costieri o a poppa dei barconi. E sulle spiagge, il kit ombrellone-lettino costa solo dieci euro, venghino siori venghino. I bar somigliano ai nostri, sono stati pensati e realizzati su quel modello, e sono per noi. E gli italiani apprezzano, mai come in questi tempi di caro-vita. Quest’anno dicono ci sia stato il boom. Il nostro presidente del Consiglio, mentre scrivo, sta facendo colazione con Rama.
Nelle settimane precedenti, in Montenegro, ho visto una scena molto simile, appena un po’ “più su” di livello. Turchi e russi hanno investito parecchio nel piccolo Stato ex jugoslavo, grande come metà della Toscana e assai meno popolato (appena 800 mila abitanti). Nel Golfo di Cattaro è sorto il Porto del Montenegro, a Tivat: mega yacht di lusso (molti russi che qui si sono rifugiati per evitare i sequestri in acque italiane), un angiporto fatto di soli negozi di grandi marchi della moda (per lo più italiani ma non solo), bar dove si paga salato anche un caffè. Ma l’approccio col territorio sembra sulla falsariga di quello albanese: un’unica città balcanica che sale, cemento a profusione, accoglienza turistica che deve essere moltiplicata, ancora e ancora.
Questi sono nuovi territori da piegare alla logica commerciale, vicini, dunque preziosi. Li troveremo isolati, deserti, perduti in inverno, e poi chiassosi, sovraffollati d’estate. A Cattaro, il più nascosto dei piccoli centri montenegrini costieri, cittadina che con Perasto ha descritto pagine di storia della marineria, di resistenza agli invasori, già inserita negli elenchi Unesco dei beni da salvaguardare, oggi abitano solo poche decine di montenegrini. La comunità locale non esiste più tra le mura antiche, si è ritirata a vivere nei dintorni, perché questo modello del romanico, questo crogiolo di arti e confessioni, è diventato un enorme bed&breakfast, tutto stanze e ristoranti. Ciò che i turchi non riuscirono a fare con le armi, e cioè conquistare Cattaro, pare che lo abbiano fatto oggi con i soldi.
Poco più su, navigando da maggio per la lunga costa croata, la scena incontrata è stata la medesima. Nuove costruzioni, ennesimi finti galeoni caraibici col Jolly Roger, musica, secchi di ghiaccio, ritmi da forzati del turismo, rumore, sovraffollamento. E nei marina, 250 euro a notte per una barca a vela, pur se grande come la nostra. In due settimane ci siamo entrati ovviamente soltanto due volte, per mera necessità.
A Dubrovnik, nel porto turistico nella baia a nord dell’antica Ragusa, c’è perfino la piscina, ma non si può nuotare: sott’acqua è pieno di sgabelli avvitati sul fondo, specie di subacquei cavalli di Frisia che impediscono una bracciata, ma favoriscono la bella vita. Come nelle serie tv, i camerieri servono cocktail direttamente a bordo vasca. Quando ci capitiamo per farci un bagno restiamo interdetti, e ci invitano subito, garbatamente, ad andarcene. Oltre ai supermercati carissimi e ai marina, oggi a Dubrovnik si paga salata anche la passeggiata sulle mura: 24 euro. Ricordo le mie camminate all’alba. Temo non le farò più.
Ecco i Balcani oggi, descritti a caldo, proprio mentre Mediterranea lascia Saranda e entra a Corfù, carica di desiderio di normalità: soldi, cemento, rumore e una visione turistica inquinante, dispendiosa di risorse, inattuale. Per non dire delle esose frontiere da superare tra tasse e “oboli” obbligati.
Questo abbiamo comunicato ai nostri dirimpettai adriatici? Questo modello hanno imparato da noi? Temo di sì. E se invece ci sono arrivati da soli, in nessun modo abbiamo saputo offrire una visione differente. Certo, per chi come me su queste coste ci viene e ci naviga da cinquant’anni, fa tanta tristezza. Ma fa anche venire voglia di andare avanti col lavoro minuto e quasi insignificante, eppure essenziale, resistente più che mai oggi, di navigarci, osservare, cercare di capire, raccontare. Anche solo per tentare di unire le forze con chi non si è ancora rassegnato alla decadenza.