Sulla morte di Michela Murgia è stato detto di tutto. Inevitabilmente, perché personaggio pubblico, e forse ancor più perché schierata, politicamente e mediaticamente, in quelle “battaglie” che dividono l’opinione pubblica, fanno litigare gli ospiti dei talk show e finiscono per diventare anche di moda. Mi pare tuttavia che non vi sia stata una riflessione più profonda sulla narrazione della sua malattia e poi sulla regia, in fondo narrazione essa stessa, seppur postuma, della sua morte: tema scottante, in una società che malattia e morte, o le scotomizza o le spettacolarizza ma, in un verso o nell’altro, le rifugge. È questa narrazione, a mio modo di vedere, che attiene più di tutto alla scrittrice, all’anima dell’artista che l’ha abitata, credo apprezzabile senza che necessariamente ci si trovi d’accordo o meno con le posizioni e le ideologie a cui il suo io secolare si è votato.
D’altronde come psichiatra e psicoterapeuta ho l’inevitabile tendenza a cercare negli individui indizi della psiche del profondo, i codici dell’anima per dirli alla Hillman: quelli che trascendono il tempo, si nascondono dietro alle maschere e rivelano che le persone sono assai più complesse dei ruoli in cui si identificano, somigliano più di quanto pensano a chi giudicano e proiettano se stesse continuamente in ciò che rifiutano. Deformazione o competenza professionale irrinunciabile che mi porta a guardare alla parabola di malattia e morte di Michela Murgia da una prospettiva analitica.
Spesso è proprio una malattia come la sua a far accadere un certo tipo di risveglio interiore che conduce molti di quei malati, non solo nel reparto di oncologia, ma anche seduti nella mia poltrona, a diventare filosofi e artisti loro malgrado, per via di quell’interrogarsi metafisico a cui la malattia li costringe. Potrei scrivere un libro, e forse lo farò, su quella che in questi vent’anni e più di attività clinica non è stata solo psico-oncologia come supporto psicologico a chi affronta “il male”, ma ricerca insieme a quei pazienti di un senso dove il senso pare perduto. Curiosamente, pur avendo avuto dall’inizio l’intenzione di dedicarmi alla psichiatria, l’oncologia mi ha sempre interessata: da un certo punto di vista, in fondo, il tumore potrebbe sembrare una follia cellulare, una lotta tra identità diverse con diversi dna nello stesso individuo.
Così ho studiato e continuo a studiare la genetica e la biologia del cancro, dialogando con ricercatori e collaborando con servizi di oncologia rispetto al senso biologico e al destino terapeutico del cancro, mentre nel dialogo con i pazienti proseguo nel solco psicosomatico che fu già di Freud, di Reich, di Groddeck per giungere alla visione moderna della psichiatria evoluzionistica di Randolph Nesse e Athena Aktipis, passando per le riflessioni metafisiche di grandi oncologi come Ameisen, Israel, Boukharam che si sono interrogati sul significato profondo di una malattia come il cancro e sulla relazione metaforica, ma forse anche biologica, tra soggettività cellulare e soggetto come organismo di cellule.
Ed è qui che con Michela Murgia mi sembra importante aprire un confronto, dialogando con lei attraverso un dialogo nello spazio-tempo letterario con la donna malata, suo alter Ego in Tre ciotole, e forse anche con l’Accabadora delle origini, che, vista a posteriori, assume un che di profetico rispetto alla vicinanza della scrittrice con la morte. A corollario possiamo apporre l’intervista rilasciata ad Aldo Cazzullo per il Corriere e le dichiarazioni del suo curante prof. Fabio Calabrò.
In questi passaggi, Michela Murgia tocca due questioni fondamentali su cui mi sono espressa anche in due precedenti post sul Fatto: l’importanza di uscire dalla metafora bellica nel rapporto con la malattia tumorale (“non mi riconosco nel registro bellico” e ancora “Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono.”) e la difesa della libertà di autodeterminazione (Murgia chiese al prof. Calabrò di stipulare un patto: “Che sarebbe stata libera di rinunciare alla cura nel momento in cui le medicine le avrebbero impedito di essere quella che era sempre stata. Le ho garantito la libertà fino all’ultimo giorno. Ed era tutto quello che lei desiderava”).
Gli artisti sono capaci di una operazione di trascendenza su se stessi e sul mondo in cui vivono che distilla gocce di eternità per il collettivo immanente al tempo e mette punti fermi al divenire delle opinioni e credo che, rispetto alla relazione con la malattia come qualcosa che appartiene al soggetto e al diritto di autodeterminazione delle cure, la Murgia abbia assolto totalmente alla vocazione dell’artista.
È sulla interpretazione della malattia che invece credo che ci sia ancora una narrazione da scrivere, una quarta ciotola oltre le tre, con cui la donna del libro cerca di alimentarsi, evitando il vomito, immersa nell’idea che “Gli organismi sofisticati sono più soggetti a fare errori. È il sistema che ogni tanto si ingarbuglia, la volontà non c’entra.”
C’è una quarta ciotola, vuota di soluzioni e piena di domande che tuttavia sta sulla tavola e credo non si possa e debba dimenticare. Quella della danza tra caso e necessità – per dirla con Jacques Monod – che non si può esaurire “nell’ipotesi insopportabile dell’incidente statistico.” (Tre ciotole)
È vero che l’errore è funzione della complessità, ma lo è anche l’autopoiesi e forse non si può abdicare alla complessità con la rassegnazione alla banalità del male. Altrimenti cadrebbe proprio quella passione anticonformista e creativa per cui in fondo tutti ricordano Michela Murgia ed è una medicina appassionata che non si tira indietro davanti all’enigma e non può essere in alcun modo riduzionista quella che continuo a professare.
Sarebbe stato interessante discutere ancora con Michela Murgia della quarta ciotola. Ma in effetti ci si parla anche nel silenzio, come disse il grande Terzani, e il silenzio è ancora pieno di parole, comprese quelle straniere e quelle ancora da inventare per la ciotola che non c’è.