Elephant in the room, l’elefante nella stanza è una metafora di origine anglosassone entrata anche nel nostro linguaggio corrente per indicare una verità che, per quanto appariscente – come un elefante dentro ad una stanza, appunto – viene ignorata o taciuta da tutti. “L’idea di base”, spiega Wikipedia, “è che un elefante dentro una stanza sarebbe impossibile da ignorare; quindi, se le persone all’interno della stanza fanno finta che questo non sia presente, la ragione è che così facendo sperano di evitare un problema più che palese. Questo atteggiamento è tipicamente adottato in presenza di tabù sociali o di situazioni imbarazzanti”.

E’ esattamente quanto accaduto in riferimento al libro del generale Vannacci “Il mondo al contrario”, rispetto alle cui tesi, da un lato, sono state prese le distanze da parte del ministro della difesa Crosetto, che ha definito “farneticazioni personali” le affermazioni contenute nel volume; dall’altro lato, è stato attaccato dalle opposizioni e parte dei media sulla legittimità e opportunità di esprimere giudizi di tale gravità sui soggetti che lui considera “minoranze”, visto il ruolo che ricopre all’interno dell’Esercito.

Ma nessuno ha affrontato il tema cruciale, il tabù dell’elefante nella stanza. Ossia il fatto che il generale abbia espresso, non in una chiacchierata al bar ma argomentandolo in un libro, ciò che è da sempre evidente per chi vuole vedere: omofobia, patriarcato, razzismo, elitismo – emergenti dalla sua pubblicazione, stando a quanto riportando dagli stralci di stampa – sono elementi costitutivi, non occasionali, del militarismo.

Se le frasi incriminate del libro del generale, fondate sulla rivendicazione del diritto all’odio – “Per quanto esecrabile, l’odio è un sentimento, un’emozione che non può essere repressa in un’aula di tribunale”, scrive il generale, “Se questa è l’era dei diritti allora, come lo fece Oriana Fallaci, rivendico a gran voce anche il diritto all’odio e al disprezzo e a poterli manifestare liberamente nei toni e nelle maniere dovute” – fossero solo “farneticazioni personali”, non si capirebbe come un farneticante generale sia potuto approdare, con una folgorante carriera, ai massimi vertici dell’Esercito italiano che lo ha visto a capo dei suoi corpi speciali (dal comando del reggimento dei paracadutisti Col Moschin a quello della Folgore, tra gli altri) e partecipare, con ruoli di progressivo maggior rilievo e comando, alle principali missioni di guerra decise negli ultimi decenni dai governi italiani: Somalia, Balcani, Iraq, Libia, tra gli altri, oltre ed essere stato il primo comandante della famigerata Task Force 45 in Afghanistan, che conduceva azioni di guerra “non convenzionali” contro la resistenza afghana all’occupazione occidentale.

In verità, se ci decidessimo a guardare l’elefante invece di fare finta che non ci sia, ci renderemmo conto che è il militarismo a essere farneticante, ossia alienum a ratione, come la guerra di cui è strumento e preparazione (secondo la definizione datane dall’enciclica Pacem in terris di papa Giovanni XXIII): il generale in questione ha dato “solo” esplicita manifestazione ai disvalori che ne sono connaturati.

In questo ci può aiutare anche un ben più noto collega del generale Vannacci: già nelle prima pagine del celebre saggio “Della guerra”, studiato ancora nelle accademie militari, il generale prussiano Carl von Clausewitz teorizzava che la guerra – a suo dire “continuazione della politica con altri mezzi” – è la risultante di tre fattori: “Della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto; del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima; della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione”.

E come sanno coloro che si occupano di diffondere la propaganda di guerra per spingere i cittadini ad accettarla e i militari a combatterla (non è casuale il richiamo di Vannacci ad Oriana Fallaci che incitava, con “rabbia ed orgoglio”, alla “guerra di civiltà” dopo l’11 settembre), l’alimentazione “del cieco istinto” dell’odio e dell’inimicizia è l’elemento preliminare, dal quale gli altri due discendono.

L’ideologia dell’odio che il generale Vannacci rivendica è dunque fondamento culturale del militarismo, intriso del corollario di disprezzo nei confronti dei portatori di alterità, rispetto alla presunta “normalità” che anche il libro difende. Per cui l’ascesa del generale ai vertici di una organizzazione militare e alla guida di missioni di guerra internazionali si configura – pur all’interno di un ordinamento militare che risponde alla Costituzione democratica e antifascista che “ripudia la guerra” – come pienamente coerente e funzionale alla pedagogia nera che pervade la cultura bellicista tout-court ad ogni latitudine. Come dimostra la lunga storia di bullismo machista e sessista che il militarismo manifesta ovunque anche in tempo di pace, oltre alla violenza “legittimata” in tempi e contesti di guerra.

Infine, diciamolo: è in momenti come questo che ci manca maggiormente la capacità di lucida visione e denuncia degli elefanti nella stanza che avevano intellettuali come Pier Paolo Pasolini o Michela Murgia, della quale avevo appena fatto in tempo a raccontare le ragioni della dichiarazione di antimilitarismo che la cronaca ne ha fatta esplodere un’altra. Mostrando anche la cecità selettiva che porta con sé, mentre è necessario aprire bene gli occhi, guardare e vedere. Perfino gli elefanti nella stanza.

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