C’è un’espressione inglese che riassume molto bene la tradizione di politica estera Usa. E cioè, le dispute si fermano al “water’s edge”, al bordo dell’acqua, quindi dentro i confini del Paese. In altre parole, scontri, polemiche, divisioni devono essere confinate alla politica nazionale. Quando è in gioco l’interesse degli Stati Uniti nel mondo, la regola è invece una sola: sostegno all’amministrazione in carica a Washington, non importa quale sia il suo colore politico. La regola, a dire il vero, ha prodotto anche risultati aberranti – basti pensare alla mancanza di critica nelle fasi iniziali della guerra in Vietnam o all’invasione dell’Iraq nel 2003 – ma è stata in generale quasi sempre applicata. Quando c’è di mezzo l’interesse supremo degli Stati Uniti, per l’appunto, non ci si divide. Sulla guerra in Ucraina, invece, si delineano ormai divisioni molto nette, visioni spesso agli antipodi. E la cosa promette di giocare un ruolo importante alle prossime elezioni presidenziali del 5 novembre 2024.

Va subito detta una cosa. La guerra in Ucraina non è, né presumibilmente sarà, in cima alle preoccupazioni degli elettori che quel martedì di novembre si recheranno alle urne. Sono altri i temi che terranno con ogni probabilità banco: l’economia anzitutto, e poi la sicurezza, le “guerre culturali” su aborto, genere, etnia, la concorrenza con la Cina, la valutazione della “persona” del candidato. C’è però da tenere presente un altro dato. Il margine tra i candidati, nel 2020, è risultato in alcuni Stati chiave minimo: lo 0,23 per cento in Georgia, lo 0,63 per cento in Wisconsin, l’1,16 per cento in Pennsylvania. Ecco dunque perché diventa fondamentale catturare il voto di quella minoranza di elettori per i quali la guerra è un tema centrale.

È fuor di dubbio che Joe Biden abbia giocato sull’Ucraina molto del suo prestigio personale e internazionale. Del resto, come ha detto l’ex ambasciatore Usa a Mosca Michael McFaul, “non c’è mai stato un presidente Usa che abbia conosciuto l’Ucraina così in profondità come Biden”. Da vicepresidente, Biden ha viaggiato in Ucraina sei volte ed è stato il rappresentante dell’amministrazione Obama alla prima inaugurazione presidenziale dopo la rivoluzione di Maidan nel 2013-2014. Da presidente, Biden ha poi visitato a sorpresa il presidente Volodymyr Zelensky nella Kiev martoriata dai bombardamenti russi. Non si tratta comunque di un fatto di pura “presenza”. Joe Biden ha fatto della guerra in Ucraina una sorta di manifesto della sua visione di un mondo spaccato tra democrazie e autocrazie, con l’America “faro di speranza per tutto il globo”. “Gli Stati Uniti non vacilleranno nel loro sostegno a Kiev”, ha spiegato il presidente durante il summit Nato di Vilnius. E sinora, in termini militari, finanziari, il sostegno americano all’Ucraina non ha davvero mai vacillato. Da Washington sono partiti, destinazione Kiev, oltre 113 miliardi di dollari dal giorno dell’invasione russa del 24 febbraio 2022. Una cifra considerevole, se si pensa che nei 20 anni di invasione e occupazione dell’Afghanistan, gli Stati Uniti hanno speso 849 miliardi.

Biden, che nonostante dubbi e mugugni tra molti nel stesso partito appare al momento il candidato più probabile per i democratici nel 2024, ha ottenuto sulla guerra in Ucraina il sostegno quasi unanime dei suoi. Moderati, centristi, liberal, progressisti del partito democratico non hanno mai messo apertamente in discussione la strategia di sostegno a Kiev. L’ala progressista, i vari Alexandria Ocasio-Cortez, Bernie Sanders, Ilhan Omar, Rashida Tlaib, Ayanna Pressley, di solito contrari all’impegno militare americano nel mondo, hanno votato senza fiatare l’“Ukraine Democracy Defense Lend-Lease Act of 2022” e tutte le successive richieste militari e finanziarie a favore dell’Ucraina che Biden ha mandato per l’approvazione al Congresso (unica eccezione, lo scorso luglio, il voto di 49 deputati democratici contro l’invio di bombe a grappolo a Kiev). Anzi, si potrebbe dire che proprio sull’Ucraina si è verificato un evento storico, e cioè la trasformazione degli orientamenti prevalenti di politica internazionale dei due maggiori partiti americani. Per i repubblicani, il credo è sempre stato “pace mediante la forza”. Attraverso Guerra Fredda, Vietnam, post-11 settembre, il G.O.P. ha sempre sostenuto che l’ordine mondiale guidato dagli americani dovesse prevedere un forte coinvolgimento militare. I democratici, soprattutto i più progressisti, hanno invece più di frequente messo in discussione l’idea di un intervento militare globale Usa. Deluso e disgustato per la sconfitta in Vietnam, il partito di Eugene McCarthy e George McGovern è sempre stato più prudente nel dare l’avvallo a interventi militari internazionali. La guerra in Ucraina muta questo schema storico. I democratici diventano convinti interventisti – e del resto il governo autoritario di Vladimir Putin sembra fatto apposta per scatenare l’opinione pubblica più fedele ai principi della democrazia. I repubblicani mantengono, nei confronti del conflitto, un atteggiamento più dubbioso.

In effetti, se per i democratici è facile registrare una sostanziale unicità di posizioni, il fronte repubblicano – soprattutto dei repubblicani in corsa per la candidatura 2024 – appare ben più mosso. C’è per esempio Donald Trump, attualmente il candidato più forte del partito, che ha spesso affermato che, diventasse lui presidente nel 2024, risolverebbe la situazione in 24 ore. L’affermazione è stata presa come una delle sue tante smargiassate. Ma c’è anche chi l’ha intesa molto seriamente; per esempio, Gerry Connelly, deputato democratico della Virginia, che ha insinuato che Trump potrebbe riuscire a risolvere il conflitto “perché va a letto con Putin”. Non particolarmente simpatetico nei confronti degli ucraini è apparso in questi mesi l’altro candidato forte del campo repubblicano, Ron DeSantis. Il governatore della Florida si è lasciato sfuggire una frase rivelatrice della sua scarsa esperienza internazionale, e cioè che la guerra in Ucraina è una “disputa territoriale”. Uno svarione, che però lascia intravvedere l’attitudine non particolarmente benigna nei confronti di Zelensky di una eventuale Casa Bianca a gestione DeSantis. Tra i candidati repubblicani alla presidenza ci sono comunque opinioni in linea con le scelte di Biden. Favorevoli all’intervento americano sono per esempio l’ex vice di Trump, Mike Pence, e l’ex ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley. Il primo ha spiegato che Trump potrebbe far finire la guerra in 24 ore “soltanto capitolando alle richieste di Putin”. La seconda ha affermato che la guerra in Ucraina non riguarda solo l’Ucraina, “ma è una guerra per la libertà, di quelle che devono essere vinte”.

Questa varietà di sfumature tra i candidati repubblicani si riflette anche al Congresso, con il leader della Camera, Kevin McCarthy, molto poco propenso a inviare altri dollari in Ucraina; e il capo dei senatori repubblicani, Mitch McConnell (come peraltro la gran parte dei suoi colleghi), schierato su posizioni di deciso appoggio a Kiev. Detto questo, appare evidente una cosa soprattutto: e cioè che è Joe Biden a rischiare di più in tema di Ucraina alle prossime elezioni. Il presidente ha impegnato l’America in un sostegno convinto a Kiev. Ha inviato in Ucraina centinaia di miliardi. Ha ridisegnato molti dei piani strategici globali degli Stati Uniti sulla base della guerra. È sembrato soddisfare praticamente tutte le richieste di Zelensky.

Dato l’attuale stato delle cose sul campo, Biden dovrebbe essere riuscito a evitare le conseguenze per lui più nefaste, ma non sembra comunque aver raggiunto l’esito a lui più favorevole. Gli ucraini, infatti, non sono destinati a perdere questa guerra. Quindi, Biden ha sostanzialmente evitato le critiche per lui più fastidiose: e cioè, quelle di aver fatto troppo poco per l’Ucraina; o, al contrario, di aver impegnato risorse e prestigio americano in una guerra fallimentare. D’altra parte, sembra altrettanto difficile che l’Ucraina possa vincere questa guerra, almeno nell’accezione che gli ucraini danno al termine “vittoria”: e cioè la riconquista del territorio occupato dai russi negli ultimi mesi ma anche della Crimea, persa nel 2014. Biden, di conseguenza, non potrà presumibilmente rivendicare il successo pieno della sua politica.

Più probabile, a detta dell’intelligence statunitense, una terza opzione. E cioè che la guerra continui, sia pure a bassa intensità, per diversi mesi ancora. Se pure la pace, o quanto meno una tregua, dovesse essere raggiunta in tempo per le elezioni presidenziali, è altrettanto probabile che almeno una parte della campagna elettorale si terrà a conflitto in corso. Biden dovrà dunque trovare un modo per “comunicare” la guerra agli americani. Spiegando per esempio in modo credibile che il fatto che l’Ucraina abbia continuato a tenere testa al gigante russo è la conferma della bontà della politica di questa amministrazione. Sottolineando che i valori, la reputazione, gli interessi degli Stati Uniti sono in gioco in Ucraina, sia direttamente nei confronti della Russia sia indirettamente nei confronti della Cina. Si tratta di una strategia non facile da comunicare su un tempo sensibilmente lungo come quello di una campagna elettorale. Perché, da un lato, la strategia di Biden è soggetta all’imprevedibilità degli eventi sul campo. E perché, dall’altro, il passare dei mesi e la mancanza di risultati tangibili produce un’inevitabile stanchezza nell’opinione pubblica. Un sondaggio Cnn dello scorso 4 agosto rappresenta un campanello d’allarme per Biden. Il 55 per cento degli americani ritiene che gli Stati Uniti non dovrebbero mandare più soldi in Ucraina. Il 51 per cento pensa che gli Stati Uniti abbiano già fatto troppo per Kiev.

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