di Massimiliano
Anni fa un amico Monsignore mi disse: “Prima o poi tutto finisce. Tutto finisce e tutto scorre. Su questa Terra siamo solo debitori, siamo quelli che hanno preso in prestito le cose… e prima o poi queste cose saranno restituite al Signore”.
Viaggio sulla strada costiera che va da Aden, Yemen del Sud, verso l’Arabia Saudita. Orde di profughi dalla Somalia, dall’Etiopia, dal Sudan. Chi di loro ha qualcosa da offrire cerca di contrattare un passaggio verso nord, tra i tanti camion in circolazione sulla carrabile. Ci fermiamo in una stazione di servizio polverosa. Come in una moderna oasi si può trovare un po’ di acqua pulita, ombra e una piccola moschea. Partono con una bottiglia d’acqua tenuta a tracolla con una cordicella e le ciabattine infradito. Lentamente, come chi va verso un destino sconosciuto.
Figure esili e spettrali sull’asfalto caldo, che non deve mai essere abbandonato dai viandanti, a causa delle mine disseminate nella sabbia. Si alza una tempesta di polvere, ma loro percorreranno più di 1000 chilometri. Si tengono per mano, come bambini spaventati. E lo sono: vanno verso l’ignoto. L’aria calda è soffocante e la sabbia nel vento secca la pelle e gli occhi, niente più lacrime da risparmiare pensando ad una casa lontana, ad una famiglia lasciata indietro. In Arabia Saudita c’è speranza. Ma la speranza sarà solo fatica per gli schiavi dei nuovi faraoni. Hotel, case, centri commerciali, dove la ricchezza è spesso oscenamente ostentata e di cattivo gusto. Per loro nessuna identità, nessun nome, ma ci saranno almeno 12 ore di lavoro sotto un sole cocente, senza paga sindacale né ferie. Basta lavorare e sperare. Se è vero che esiste il Dio del mio amico Monsignore, allora penso che queste persone abbiano un credito con lui e non un debito.
Il gendarme yemenita che è seduto accanto a me, sorseggiando il tè, li guarda con uno sguardo di commiserazione e con aria di disprezzo e mi dice: “Questa gente… guardali, non hanno secoli di storia e tradizione alle spalle come noi Arabi… Portano Aids, prostituzione, miseria… speriamo che scompaiano nel deserto.” E fino a pochi minuti fa si parlava di un Dio misericordioso…
Passa un costoso Suv bianco con aria condizionata e pneumatici da pista nuovissimi. E’ di una organizzazione internazionale, una Ong. Guarda le anime erranti, rallenta e si ferma. Una giovane espatriata pallida e gracile, vestita con un abaya nero, si avvicina al gruppo, con l’aiuto di un assistente locale, distribuisce acqua in bottiglia e qualche cracker. Con attenzione maniacale, stima e registra numeri e posizione. Inoltre, li chiamerà IDP. Internationally Displaced People. Ha fretta di ritornare in un ufficio confortevole, dove verranno compilate le pratiche burocratiche, i donatori saranno soddisfatti e stanzieranno maggiori fondi ben giustificati.
Ordigni inesplosi sono sparsi lungo tutta la strada principale. Le mine vengono piantate da fazioni scissioniste e non conoscono la differenza tra una vittima innocente o un militare armato di tutto punto. A bordo strada le ossa dei cammelli, sbiancate dal sole e spezzate dall’esplosivo, sono i segni. Gli enti locali non sono interessati a qualsiasi rapporto rilasciato dalle Ong su tali rischi. La maggior parte degli ordigni vengono scambiati per giocattoli dai bambini o verranno raccolti per essere venduti come ferrovecchio dagli abitanti dei villaggi. Molte vittime, spesso senza nome, da queste pratiche malsane.
E’ bizzarro che molte delle bombe inesplose incontrate provengano da fabbriche occidentali. Quello stesso occidente che tra un aperitivo e un momento solidale dice basta alla guerra. Guidando verso Hodeida, ci imbattiamo in uno strano panorama. Attraversando un piccolo insediamento, ci fermiamo e notiamo un piccolo accampamento polveroso. Recintato con filo spinato, sorvegliato da uomini armati. All’interno, alcune tende stanche e sporche. Lacere come antichi sudari sostenuti da rami di rovo e qualche spago.
Un grande serbatoio di plastica per l’acqua, una bambina che lava i panni con acqua che proviene da un tubo rotto. Guardie magre come lupi affamati ci osservano da lontano. Dentro il campo, solo donne e bambini piccoli. Occhi tristi e corpi magri. Corpi scossi dal vento e dalla paura. Per lo più bambine. Dai lineamenti sembrano somali o eritrei… cerco di fare una foto veloce e un punto di riferimento con il mio GPS ma con mossa fulminea alcune guardie, correndo verso di noi, circondano la macchina. Con tono intimidatorio e sotto la minaccia delle armi ci chiedono di spostarci e allontanarci. E di farlo velocemente. Mi minacciano di arresto con sequestro di auto e cellulare. L’autista yemenita negozia la ritirata e promettiamo di tornare indietro.
Gli uomini armati hanno abbassato gli AK arrugginiti e abbiamo così interrotto il nostro viaggio lì. A volte è meglio lasciare le cose non dette, poiché i pensieri sono angosciosi.
L’autista prega di dimenticare quella posizione. Racconta di aver sentito dire di bambini schiavi venduti a famiglie per lavori domestici o schiavi del sesso. Parla anche di traffico di organi. Secondo lui, molti dei bambini finiscono oltre i confini e scompaiono… ma preferisce tacere per il resto del viaggio di ritorno. Chiaramente non vuole essere coinvolto nella mia ricerca di informazioni. Ha una famiglia numerosa che dipende da lui.
La mattina dopo, ad Aden, contatto una amica che lavora con una Ong. Riferisco in dettaglio del campo recintato. Posizione, situazione… Cordialmente mi viene detto che questa è un’informazione molto sensibile, che sarà segnalata alle autorità locali. Non c’è molto che possa essere fatto: occorre mantenere buoni rapporti con il Paese ospitante. Non possiamo mettere a rischio presenza e progetti qui.
Sono oramai lontano dalle convinzioni religiose. Da anni. Cresciuto in una realtà cristiana, mi dicevano spesso dei nostri doveri verso Dio. Ma come esseri umani abbiamo dei diritti, come una vita dignitosa e giusta?