Mondo

“Mille morti in 24 ore”: dramma senza fine in Darfur. Indagine Onu sulle stragi di giugno: “Genocidio delle popolazioni non arabe”

Mille morti in un solo giorno. E’ un numero che fotografa la crisi umanitaria di Geneina, la capitale dello Stato del Darfur Occidentale, in Sudan, e che esce da alcune delle testimonianze raccolte dalla Cnn sui presunti crimini di guerra perpetrati nell’area al confine con il Ciad dai “ribelli” delle Forze di supporto rapido, in guerra con l’esercito di Khartoum da aprile. “I giorni più sanguinosi sono stati il 15, il 16 e il 17 giugno” raccontano alla tv all news americana. “Il 15 il peggiore di tutti”: solo quel giorno si sono contate mille vittime. Da aprile più di un milione di persone sono fuggite nei Paesi vicini, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Già il 13 luglio il procuratore della Corte penale internazionale, Karim Khan, aveva dichiarato che stava indagando su nuove accuse di crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Darfur, tra cui l’uccisione di 87 membri della comunità etnica Masalit, documentate dall’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu. A più di due mesi dall’accaduto, nuove indagini svolte da agenzie delle Nazioni Unite e da media internazionali rivelano quanto era stato nascosto sotto la nebbia di guerra e tutte portano ad un unico risultato: il genocidio delle popolazioni non arabe.

Il Darfur è già stato devastato da una campagna di pulizia etnica, che aveva raggiunto il suo picco nei primi anni 2000, guidata, tra gli altri, anche dallo stesso Mohamed Hamdan Dagalo che attualmente comanda incontrastato le Forze di Supporto Rapido. Negli ultimi anni Dagalo era riuscito a scalare i ranghi del potere fino a diventare la seconda figura più potente dell’amministrazione sudanese prima dello scoppio dell’attuale guerra. Abdel Fattah al-Burhan, il capo militare del Sudan, e lo stesso Dagalo avevano infatti unito le forze per reprimere il movimento civile e pro-democrazia che aveva contribuito a rovesciare nel 2019 l’allora dittatore Omar al-Bashir. Successivamente i due generali avevano condotto il colpo di stato contro il governo di transizione riconosciuto a livello internazionale.

Con lo scoppio della guerra tra i due generali la regione del Darfur diventò subito un punto caldo del conflitto, ambita da entrambe le parti in quanto controllandola si ha accesso a punti di confine strategici che aumentano le possibilità di rifornirsi di armi dall’estero. Settimane dopo lo scoppio del conflitto in Sudan, gli attivisti della comunità del Darfur avevano quindi avvertito che le Fsr di Dagalo e le loro milizie alleate stavano perpetrando violenze arbitrarie nella regione, incendiando interi villaggi, uccidendo civili e stuprando donne. A seguito delle segnalazioni di omicidi sommari e “discorsi di odio persistenti”, inclusi inviti a sfrattare o uccidere membri della comunità Masalit a Geneina, l’Onu aveva lanciato a giugno l’allarme sulla profilazione razziale e sul possibile sterminio dei Masalit. I combattimenti tra le Forze di Supporto Rapido e l’esercito sudanese nelle regioni occidentali si sono infatti intensificati all’inizio di giugno, culminando con l’esecuzione del governatore del Darfur Occidentale Khamis Abbakar il 14 dello stesso mese. Dopo la sua morte sono circolate riprese video che mostravano Abbakar preso in custodia dai combattenti delle Fsr. L’esercito sudanese ha accusato quindi le milizie rivali della sua uccisione, un’accusa che le Fsr hanno negato. “L’ultima volta che abbiamo registrato il bilancio delle vittime a Geneina è stato di 884“, ha detto alla Cnn un operatore umanitario locale della città: “Era il 9 giugno. Dopo il 9 giugno, è stata una storia diversa. I morti sono diventati troppi”.

“Dire che eri Masalit era una condanna a morte”, ha detto Jamal Khamiss, un avvocato per i diritti umani, ai giornalisti della Cnn riferendosi alle vicende accadute nella metà di giugno in Darfur. La stragrande maggioranza di coloro che sono riusciti a uscire vivi da Geneina ha cercato rifugio ad Adré, in Ciad, a circa 35 chilometri dalla città sudanese. Secondo Medici Senza Frontiere, che gestisce l’unico ospedale di Adré, nel solo 15 giugno, in questa città ha ricevuto il maggior numero di migranti in un solo giorno, insieme al maggior numero di vittime, contate in 261, da quando è scoppiato il conflitto in Sudan. “Ricordo la prima morte che ho registrato”, riporta uno dei medici dell’ong a Cnn: “Era un bambino di due anni che era stato colpito più volte all’addome”. Tra il 15 e il 18 giugno, 112 donne, la metà delle quali incinte, sono state curate all’ospedale di Msf per ferite da arma da fuoco e lesioni dovute a percosse e altre aggressioni. Il 12 luglio, in una conferenza stampa, Mujeeb Rahman Muhammad Rezk, funzionario del Darfur Occidentale, ha dichiarato che 30 fosse comuni sono state scoperte dentro e intorno allo stato sudanese spiegando poi che “le Forze di Supporto Rapido hanno costretto la Mezzaluna rossa sudanese a “a preparare i corpi, avvolgerli e legarli in teloni per la sepoltura”, concludendo poi che “sono stati minacciati dalle milizie e costretti ad andarsene, in modo che le stesse potessero seppellire i corpi in località non identificate”.