di Luciano Sesta*
È vero che, e non solo in Italia, su molti temi c’è un’ortodossia di pensiero e un conformismo che criminalizza qualunque opinione divergente. Su temi come l’ambiente, la pandemia, i flussi migratori e la parità di genere non sono consentite deviazioni dalla linea stabilita. Si dirà: “stabilita” da chi? Dalla “opinione pubblica dominante”, che non va confusa con il “sentire comune”. Se l’opinione pubblica dominante si esprime nelle tendenze legislative e nei media istituzionali, il sentire comune trova sfogo in chat private, al bar o nella vita di ogni giorno. Un esempio di questa dissociazione fra ciò che uno “di fatto” pensa (sentire comune) e ciò che tutti “dovremmo” pensare (opinione pubblica dominante) è l’attuale politica italiana di appoggio incondizionato all’Ucraina. Nonostante la maggioranza degli italiani sia contraria alla guerra e all’invio di armi, i media e la politica procedono indifferenti nella direzione opposta, facendola credere l’unica possibile.
Il libro del generale Vannacci si inserisce in questo quadro, che secondo alcuni ne spiega il successo. Vannacci sarebbe un eroe della “libertà di parola”, un testimonial della maggioranza silenziosa, uno che finalmente dice senza peli sulla lingua ciò che quasi tutti pensano, ma che nessuno ha il coraggio di dire pubblicamente, perché intimidito dal clima “politicamente corretto” imposto da una minoranza distaccata dal sentire comune.
In questa lettura c’è un fondo di verità. Su molti temi oggi sappiamo già in anticipo cosa dobbiamo dire e cosa è vietato dire, come se su guerra, diritti civili, pandemie, crisi climatiche e migrazioni non ci fosse nulla su cui riflettere ma solo da mobilitarsi nella direzione prescritta da chi ha già pensato per noi, ossia i governi e gli organi di stampa. Chiunque osi fornire una lettura alternativa alla linea ufficiale non viene considerato una “voce critica”, come sarebbe normale in una democrazia liberale, ma un “soggetto pericoloso”, uno che va “rieducato”. Niente di diverso dai regimi totalitari dello scorso secolo, insomma.
Peccato però che non sia questo il caso del libro di Vannacci. E non perché si avvalga della libertà di parola e di pensiero o perché sostenga tesi controcorrente, ma per il modo in cui lo fa. I toni sono sciatti, provocatori e maliziosamente offensivi, per cui il lettore rimane più colpito dalla durezza di uno sfogo che dalla persuasività di un’idea. Non stupisce perciò che lo si stia accusando di un abuso, non di un semplice uso, della libertà di parola. È la trappola in cui cadono molti sostenitori di idee minoritarie. Anziché cercare di renderle convincenti, le sbattono in faccia ai propri interlocutori rivendicando la libertà di farlo. Già Aristotele – che non è autore da caserma, lo so, ma lo cito senza snobismo – raccomanda di non argomentare mai ignorando gli “endoxa”, ossia i modi di pensare dominanti. Se io sostengo una tesi disprezzando quelle che mi circondano, i miei interlocutori si sentiranno più offesi che persuasi. E perché di questo possano accorgersi anche gli attuali difensori del libro di Vannacci, basti un solo esempio, quello dell’omosessualità. Nel suo libro Vannacci scrive:
“Cari omosessuali, normali non lo siete, fatevene una ragione! […] La normalità è l’eterosessualità. Se a voi tutto sembra normale, invece, è colpa delle trame della lobby gay internazionale che ha vietato termini che fino a pochi anni fa erano nei nostri dizionari: pederasta, invertito, frocio, ricchione, buliccio, femminiello, bardassa, checca, omofilo, uranista, culattone che sono ormai termini da tribunale”.
È evidente che modi simili di esprimersi hanno poco della critica legittima, veicolando una nemmeno troppo strisciante omofobia. In questo brano si fa credere che la normalità “percepita” dalle persone omosessuali sia dovuta al fatto che oggi non possiamo più indicarle con termini come “frocio” o “culattone”. Si fa insomma intendere che continuare a poter dire “frocio” sarebbe invece di aiuto ai gay, affinché si “ricordino” della loro “anormalità”. Invitato a chiarire queste parole, Vannacci si è premurato di precisare che il suo concetto di “normalità” era puramente statistico, non clinico, per cui l’omosessualità sarebbe “anormale” nel senso di “statisticamente eccezionale” rispetto alla maggioranza degli eterosessuali. Dire che, diversamente dagli omosessuali, gli eterosessuali sono “normali” significherebbe dire una banalità che sappiamo tutti, ossia che gli eterosessuali “sono di più” degli omosessuali. Ci si potrebbe allora chiedere perché tanto rumore per nulla. Senza considerare che una minoranza non perde eventuali diritti, se li ha, per il fatto di essere minoranza. Al contrario.
In realtà la parola “normalità” è usata da Vannacci in un senso non solo statistico, ma anche morale. Il sottinteso del suo ragionamento è che una minoranza, in quanto tale, non può avere gli stessi diritti che ha la maggioranza. Chi è statisticamente eccezionale, tuttavia, non per questo perde i diritti di cui godono i membri della maggioranza “normale”. Per accorgersi dell’assurdità di questo modo di procedere basta sostituire, nel brano di Vannacci, “omosessualità” con un’altra categoria minoritaria, e dunque statisticamente “non normale” nel senso di Vannacci, per esempio quella di chi, per scelta religiosa o per condizione, è “vergine”: “Cari vergini, normali non lo siete, fatevene una ragione! […] La normalità è avere rapporti sessuali. Se a voi tutto sembra normale, invece, è colpa delle trame della lobby vaticana internazionale che ha vietato termini che fino a pochi anni fa erano nei nostri dizionari: zitella, eunuco, asessuato, sessuofobo, sfigato, che sono ormai termini da tribunale”.
Si provi in effetti a immaginare un contesto sociale e politico in cui la maggioranza delle persone non vedesse di buon occhio non gli omosessuali, ma chi ha fatto voto di castità, i celibi e le nubili (religiosamente consacrati o non che siano). Se uscisse un libro in cui si accusa questa categoria di persone di credersi “normale” pur non essendolo affatto, cosa penserebbero consacrati, celibi e nubili? Lascerebbero correre in nome della libertà di parola o protesterebbero invocando maggiore rispetto per la loro condizione, accettabile o meno che sia? È chiaro che, in un contesto di leggi che già ne limitasse libertà e reputazione, celibi e nubili vedrebbero nel libro che li definisce “anormali” non un innocente esercizio di libertà di pensiero ma una pericolosa premessa di ulteriori restrizioni ai loro diritti. Si potrebbe certo non essere d’accordo con la loro protesta, ma non con il loro comprensibile e legittimo diritto di farla. Se dunque certamente esiste la libertà di pensiero, esiste anche il diritto di contestarla in nome di altri diritti.
Nonostante ciò, molti hanno letto la rimozione del generale dal suo incarico come un’inaccettabile censura e un grave attentato alla libertà di parola. Se il testo fosse stato scritto in tutt’altro stile e con ben diverse argomentazioni lo avrei pensato pure io. Ma non è il suo caso. L’insistenza sul diritto di critica e sulla libertà di parola non dovrebbe far dimenticare che, come tutti i diritti, anche quello alla libertà di espressione può incontrare un limite nella tutela di altri diritti.
In effetti c’è modo e modo di esprimere le proprie idee, e, in alcuni contesti, dalle mie idee possono derivare conseguenze dannose per alcune persone o per la loro reputazione. È dunque comprensibile che queste persone chiedano che la mia libertà di parola sia limitata dai loro diritti. Poi, certo, bisognerà valutare caso per caso dove c’è legittimo diritto di critica e dove comincia invece l’istigazione all’odio e alla discriminazione. Che non sempre sia chiaro dove finisce l’uno e dove inizia l’altro è la sfida specifica a cui deve rispondere ogni democrazia liberale, che non può rinunciare né alla libertà di critica né ai diritti dei criticati.
*docente di bioetica e filosofia morale dell’Università di Palermo